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Heidegger e la tecnologia: la neutralità è un’illusione

Il filosofo tedesco condusse una riflessione importante sul ruolo e sul significato della tecnica nella condizione umana: un libro di Mario Ricciardi e Sara Sacco ne spiega le tesi.

Heidegger e la tecnologia: la neutralità è un’illusione

La neutralità della tecnica è un’illusione

Come anticipato nel post della scorsa settimana siamo di lieti di pubblicare un altro estratto dal libro di Mario Ricciardi e Sara Sacco “La mela avvelenata”. Alle origini dell’intelligenza artificiale. Si tratta delle pagine di Mario Ricciardi dedicate ad Heidegger. Il filosofo tedesco ha condotto una riflessione importante sul ruolo e sul significato della tecnica nella condizione umana. Questa riflessione ha trovato il suo punto di sintesi e di esposizione sistematica in una prolusione del 1960 disponibile anche in traduzione italiana. Non è un testo di facile fruizione e richiede, anche, di essere addentro all’architettura del pensiero di Heidegger sull’essere e la metafisica. Ci sono in questo testo delle intuizioni fulminanti e “insolitamente comprensibili” nello schema linguistico di Heidegger, che lo rendono un contributo fondamentale nel dibattito contemporaneo circa le conseguenze della rivoluzione tecnologica sul destino dell’uomo.

Non è che Heidegger sia un tecnofobo o un tecnofilo. Forse più il primo che il secondo. Questo, però, dualismo lo lascia a noi che viviamo in una società pervasa dalla tecnologia. Non c’è alcun giudizio di valore nella riflessione di Heidegger sulla tecnica. Non c’è né rifiuto, né accettazione, né indifferenza. Scrive chiaramente nel saggio citato: “Il pericolo non è la tecnica. Non c’è nulla di demoniaco nella tecnica; c’è bensì il mistero della sua essenza”. Ecco il punto: l’essenza ed è “il mistero della sua essenza” che deve essere disvelato e che sarà liberatorio. Non possiamo sottrarci a questo disvelamento, perché quello della tecnica è un destino, a cui nessuno può sfuggire. Scrive ancora:

Restiamo sempre prigionieri della tecnica e incatenati ad essa, sia che la accettiamo con entusiasmo, sia che la neghiamo con veemenza.

Neppure possiamo rannicchiarci nell’idea che, sostanzialmente, la tecnica è qualcosa di neutrale e ciò che ne determina l’essenza è il suo impiego da parte di un ente da cui emana. No!, la neutralità della tecnica e un qualcosa di insostenibile e un’illusione che mostra l’assopimento dell’essere. La tecnica si distacca e diventa un’entità a sé stante che e non scaturisce più dall’ente. Scrive il pensatore tedesco:

“La potenza della tecnica che dappertutto, ora dopo ora, in una forma qualsiasi di impiego incalza, trascina, avvince l’uomo di oggi. Questa potenza è cresciuta a dismisura e oltrepassa di gran lunga la nostra volontà, la nostra capacità di decisione, perché non è da noi che procede”. Nella sua introduzione alla “Questione della tecnica” Federico Sollazzo, un giovane filosofo italiano espatriato, chiosa questi passi di Heidegger in modo efficace:

“La soluzione, o forse, la speranza, che intravede il pensatore tedesco non è certo quella dell’interruzione del progresso tecnico o del ritorno ad una qualche passata età dell’oro scarsamente tecnicizzata, bensì quella della possibilità di un altro incontro con il fenomeno della tecnica, che però può nascere solo dal metterne in questione l’essenza”.

Lasciamo però proseguire Mario Ricciardi che approccia il pensiero di Heidegger sulla tecnica in un modo originale e denso di riflessioni legate al mondo in cui viviamo e operiamo le nostre scelte.

Lo scaffale di Heidegger

Per Heidegger l’impossessamento universale della tecnica fa sì che l’orizzonte disponibile agli esseri umani non sia libero ma vincolato, a causa della concretezza imposta dalla tecnica. È la tecnica che si impone all’uomo, al suo destino, essa è “pro-vocazione”, precede e costringe il percorso che l’uomo potrà e dovrà intraprendere.

Per esprimere il destino ineluttabile che la tecnica impone all’uomo Heidegger usa la parola Gestell (scaffale), una immagine semplice e forte al tempo stesso, per indicare l’azione necessaria, quella appunto di ordinare e di mettere a posto in uno scaffale, disponibile a tutti, esperienze, oggetti, prodotti. La parola chiave è “ordine”. Lo scaffale è una struttura normativa, produce ordine, incasella ogni esperienza e così facendo la normalizza (la serializza se guardiamo il procedimento da un punto di vista dell’industria e del consumo), la decontestualizza (secondo l’ottica del fordismo) e rende l’esperienza programmabile, pronta a essere ri-utilizzata in un ciclo perenne, povero di senso.

La programmazione è il metodo ideale per collocare in ordine gli oggetti nello scaffale: non inventa ma cataloga come in un database. Di fronte a questa imposizione, l’uomo può recuperare la sua libertà soltanto se è consapevole del vero carattere della tecnica, che non è mero strumento, e la cui “montatura” non ha nulla di tecnico, ma è parte del destino dell’essere.

Come aveva scritto Friedrich Hölderlin, è nel pericolo che si annida ciò che salva; e Heidegger in quest’ottica, a partire dal senso originario della parola techne (arte), ne riscopre l’affinità con la poiesis: entrambe, nell’antica Grecia, stavano a indicare la produzione del vero e del bello. A quel tempo, opere d’arte e opere “tecniche”, erano organiche e unitarie e precedevano il modello alfabetico.

La macchina del linguaggio

Attraverso le sue capacità e funzionalità meccaniche, la macchina per il linguaggio condiziona in anticipo e vincola tutti i possibili usi del linguaggio. La macchina per il linguaggio è, e sarà sempre di più, il mezzo attraverso il quale la tecnologia moderna controlla le potenzialità e i modi del linguaggio. Ciononostante sembra che l’uomo sia ancora in grado di dominare la macchina del linguaggio. Ma potrebbe anche accadere che la macchina del linguaggio assuma il linguaggio stesso nel proprio dominio e che domini quindi anche l’essenza dell’essere umano.

Così la tecnologia manipola il linguaggio trasformandolo in informazione, lo riduce a supporto per la trasmissione di dati. L’azione pratica che deriva dall’uso e dalla diffusione della tecnica rivela un impulso totalizzante che riduce la realtà a cosa, oggetto misurabile e programmabile, necessariamente operante nel concreto, percepito come il mondo reale.

L’espressione spraacht machine rinvia allo strumento tecnico che incide direttamente sul linguaggio e lo può trasformare totalmente. Questa forma di domestication si rivela nel suo aspetto di dominio attraverso l’osservazione diretta di un medium meccanico, la macchina per scrivere così come era consentito nel 1957 a Heidegger. La macchina per scrivere può essere vista come il prototipo meccanico che già suggerisce un passaggio ulteriore. Non si tratta più di ingranaggio che svolge il suo compito per raggiungere un obiettivo programmato. Nel momento in cui la tecnologia è dedicata a comunicare parole, a parlare linguaggi, ad aprire conversazioni tra gli esseri umani attivi in società, cambia radicalmente la sua natura e la sua funzione.

Il dominio della macchina

Heidegger sottolinea due aspetti: la matrice di strumenti totalizzanti di programmazione estendibili all’intera società; la funzione di dominio che questa macchina potenziata e arricchita può esercitare. Un dominio che riguarda l’azione di possesso del territorio “abitato” e della società, tipici del capitalismo e più ancora del capitalismo industriale. Un domino che non si esercita soltanto sul territorio e sugli altri; la macchina è in sé dominio, contiene in sé un codice autoprogrammato che genera controllo completo anche sullo strumento più ricco e delicato del genere umano: il linguaggio.

Forse […] la storia e la tradizione scivoleranno silenziosamente nei sistemi di information retrieval al servizio delle inevitabili esigenze di pianificazione di un’umanità ciberneticamente organizzata. Ma la domanda è, se anche il pensiero si risolverà nel business dell’information processing.

Negli anni Sessanta del Novecento Heidegger non poteva prevedere gli effetti del word processing, ma temeva che l’automazione indotta dalla macchina da scrivere potesse influenzare le espressioni del pensiero fino a dominare il pensiero stesso. Tale minaccia si riflette anche nel concetto di Gebilde (immagine ricostruita): il termine indica il processo indotto dalle nascenti tecnologie informatiche di progressiva resa visiva (la multimedialità). Il procedere delle tecnologie informatiche fa prevalere l’immagine del mondo e quindi l’apparenza, la rappresentazione sulla realtà e sulla verità del mondo, alienando ogni forma di esperienza.

La tecnica, veicolo di esperienze umane reificate

La macchina per scrivere è pur sempre un oggetto meccanico, prodotto dall’industria meccanica. Le lettere compaiono sulla carta quando il martelletto, schiacciato dalle dita della mano, vi imprime il carattere attraverso il nastro predisposto. Non ci sono flussi, né input, né lo scrittore può uscire dal meccanismo predisposto. Heidegger intende la tecnica, il suo carattere essenziale come tecnologia che può manipolare il linguaggio trasformandolo in informazione e riducendolo a mero veicolo per la trasmissione di dati. In questa visione si rivela un percorso di riduzione della comunicazione a canale neutrale e insignificante che trasporta solo dati, cioè elaborazioni e esperienze umane reificate, ridotte e oggettivate in dati.

La spraacht machine era una piccola macchina rispetto ai grandi elaboratori, ai centri di ricerca o ai laboratori imponenti dell’industria americana o tedesca, dedicati a computare su scheda o su nastro le informazioni. La piccola macchina sta negli uffici delle grandi aziende, ma può essere anche una macchina personale. Un balzo in avanti lo farà in questa direzione, con un miracolo di design di stile e di capacità tecnologica, Olivetti con l’invenzione della Lettera 22. Questa sì macchina lieve e leggera, portatile e facilmente usabile.

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