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Guerra del petrolio: la Russia alle corde guarda verso la Cina

La decisione dell’Opec di lasciare libero il prezzo del barile di petrolio mette la Russia alle strette. Putin, a questo punto, potrebbe rinsaldare i suoi rapporti energetici e finanziari con la Cina. E il China Investment Fund è impegnato con i russi per la costruzione del ponte sul fiume Amur che unirà, non solo simbolicamente, i due Paesi.

Guerra del petrolio: la Russia alle corde guarda verso la Cina

Con accenti diversi, pressoché tutti i commentatori hanno sottolineato la portata storica della decisione del 166mo vertice dell’Opec tenutosi a Vienna il 27 novembre scorso di non porre limiti alla produzione di petrolio del cartello e quindi di lasciare “libero” il prezzo del barile di scendere fin dove decideranno i mercati non si può certo dire che fosse una scelta inaspettata. Il fallimento del pre-incontro con la Russia, maggior produttore di petrolio al di fuori dell’Opec, insieme agli Stati Uniti, lasciava ben prevedere l’esito finale.

Al più si parlava di un possibile taglio di 500 mila barili al giorno, comunque di modesta efficacia nell’attuale congiuntura. Eppure è come se l’ufficializzazione della politica di non intervento dell’Opec, sostenuta con successo dal principale membro del cartello, l’Arabia Saudita, abbia costretto gli osservatori a ricordarsi che il petrolio non è una merce qualsiasi. E che le decisioni prese in questa materia da chi come l’Opec controlla il 40% della produzione mondiale dell’oro nero non possono non avere pesanti effetti geopolitici.

Nei titoli dei principali quotidiani abbondano quindi le metafore guerresche: “La grande guerra dell’energia” (Giorgio Ferrari su Avvenire del 27 novembre), “La guerra del greggio che divide il mondo” (Alberto Negri sul Sole 24 ore 28 novembre), “L’Arma del petrolio” (Federico Fubini,su Repubblica del 29 novembre), solo per citarne alcuni di casa nostra.

Si concorda quindi nel prevedere conseguenze molto gravi e durature sugli equilibri mondiali. Ma non sempre su chi vince e chi perde o chi è alleato con chi. Se è evidente che Russia, Iran, Iraq, Venezuela, ma anche Ecuador e Nigeria, sono tra i perdenti, meno unanimità troviamo sul destino dei produttori indipendenti di shale oil degli Stati Uniti e di scisti bituminosi in Canada .

L’Arabia Saudita, forte dei suoi costi di estrazione intorno ai 12 dollari, di ulteriori capacità produttive per circa 3 milioni di barili al giorno e di riserve valutarie per oltre 600 miliardi di dollari può resistere a lungo con un prezzo del barile anche inferiore ai 60 dollari, e con lei i suoi alleati del Golfo, mentre, si sostiene, molti produttori di shale oil e le banche che li hanno finanziati rischierebbero il default.

Non è così, come ci ha spiegato Leonardo Maugeri, prima che su altri quotidiani, nella ricerca sullo shale oil riportata su FirstOnline da Barbara Corrao: “La migliore conoscenza dei segreti dello shale e i continui avanzamenti tecnologici consentiranno alle aziende più efficienti di superare l’ostacolo del rapporto prezzi/costi e di prosperare nonostante il crollo dei prezzi del petrolio”.

Se così fosse, e non vi è ragione di dubitare delle provate capacità di previsione dell’ex top manager Eni, l’interpretazione più corretta di quanto avvenuto a Vienna sarebbe quella indicata da Federico Rampini su Affari e Finanza di lunedì 1 dicembre: “Washington-Riad contro Putin, si rinsalda l’asse petrolifero”. La mossa cioè dell’Opec è stata concordata con gli Usa con l’obiettivo principale di colpire i paesi non allineati alle politiche neoatlantiche. L’ipotesi di un asse Riad-Mosca per mettere alle strette gli Usa dello shale oil lasciando crollare il prezzo del barile sarebbe quindi solo una “copertura” elaborata dalla sofisticata disinformatia americana.

Al netto di ogni “complottismo” e facile dietrologia, il crollo del prezzo del petrolio assomiglia nei fatti all’arma finale per mettere in ginocchio lo zar di Mosca. Unito alle sanzioni post Crimea e Donbas, il barile debole potrebbe realmente favorire il collasso dell’economia russa. Con il rublo in caduta libera e le entrate valutarie da esportazioni di materie prime energetiche in contrazione, sembra davvero che questa volta Vladimir Putin sia con le spalle al muro. Anton Siluanov ministro delle finanze russe ha ammesso che “coi prezzi attuali perdiamo 90-100 miliardi di dollari all’anno”.

Il doppio dei danni prodotti all’economia russa dalle sanzioni a seguito della crisi Ucraina. Nel bilancio 2014 la Russia assumeva un barile a 117 dollari e nel 2015 a 100 e il 50% del bilancio statale viene dalle vendite all’estero di idrocarburi. Il rublo pressoché dimezzato da inizio anno pesa sui 600 miliardi di dollari di debito estero delle grandi imprese russe. Rosneft, che pure da sola rappresenta il 5% della produzione mondiale di petrolio, ha debiti esteri per 60 miliardi di dollari. Più ottimista Igor Sechin, numero uno di Rosneft e stretto collaboratore di Vladimir Putin: “Prevediamo – ha detto al quotidiano austriaco Die Presse – una discesa del greggio fino a 60 dollari o anche più in basso per la prima parte del 2015. Ma abbiamo le risorse per reggere l’urto anche se, ovviamente, rinvieremo gli investimenti più costosi”. Un ottimismo forse obbligato dal ruolo. Anche se l’orgoglio e le capacità di resistenza dell’Orso russo non vanno mai sottovalutate. La crisi russa può quindi considerarsi imminente? E’ probabile. Ma quello che nessuno si chiede è che cosa succederebbe alla finanza mondiale se la Russia diventasse insolvente. Quante banche occidentali la seguirebbero? Quante corporation che hanno investimenti miliardari in Russia (per tutte il 18,5% di Rosneft in mano a BP o i 9.000 MW delle centrali Enel) ne soffrirebbero?

Senza contare che stretta in un angolo da quella parte del mondo a egemonia Usa che ormai la considera un avversario da umiliare, come ai tempi dell’Unione Sovietica, Mosca non potrebbe che rinsaldare ulteriormente i suoi rapporti con la Cina non solo sul fronte energetico (accordi sul gas del maggio scorso e sulle esplorazioni in Artico) ma anche su quello finanziario.

Nel 2012 la China Investment Fund, uno dei fondi sovrani più ricchi al mondo con una dotazione di circa 600 miliardi di dollari in accordo con il Russian Direct Investment Fund (10 miliardi di dollari prelevati dai 174,6 miliardi dei Fondi Riserva e di Ricchezza nazionale), ha dato vita al Russia-China Investment Fund. Per ora dispone solo di 2 miliardi dollari per investimenti comuni di cui il 70% in Russia. Altrettanti sono attesi da altri investitori istituzionali nazionali ed esteri. Per ora ha investito in foreste e miniere d’oro. Ma il progetto più simbolico in cui è impegnato è la costruzione del primo ponte tra i due paesi. Attraverserà il fiume Amur unendo la Regione Autonoma degli Ebrei (Birobidzan) con la provincia cinese dello Heilongjiang.

In attesa del possibile collasso russo (e iraniano, venezuelano, nigeriano ecc.) consumatori e imprese europee non dovrebbero che gioire dell’inatteso regalo arrivato dal crollo del Brent. “E’ la prima buona notizia per l’economia europea dal 2008, scrive Bill Emmott, già direttore dell’Economist, su la Stampa del 1° dicembre scorso, “Il calo del prezzo del petrolio del quasi 40% negli ultimi sei mesi probabilmente rilancerà la crescita dell’Europa più del finto piano di investimenti pubblici di Jean-Claude Junker o della speranza che la Germania possa cambiare idea sull’austerity”. E ci invita, quindi, per il momento a festeggiare, in attesa di vedere se l’inverno in arrivo sarà così rigido da far aumentare la domanda e quindi il prezzo del petrolio. Un aiuto inatteso alla ripresa del Pil, se un ribasso permanente di almeno 10 dollari del barile è stimato sollevare il Pil dell’eurozona nell’ordine dello 0,3-0,5%. Anche se, secondo Alessandro Merli sul Sole 24 ore del 29 novembre, “Il crollo del petrolio complica il lavoro della Bce”. Rendendo assai difficile raggiungere il traguardo di una inflazione nell’eurozona al 2%, livello considerato ottimale per la ripresa.

Ogni medaglia, quindi ha il suo rovescio. Tanto più in un modo fortemente globalizzato come il nostro. Il rischio quindi, come segnalava Antonio Negri nel citato articolo è che “I mercati fanno i barili (di petrolio) ma non sempre i coperchi. Le decisioni di Vienna non ci accompagneranno a un roseo ribasso della nostra benzina, ma verso orizzonti più oscuri e complessi – ci avverte-. La manovra di mettere alle corde Russia e Iran per rendere più malleabili Putin e ayatollah potrebbe non funzionare”. E ricorda come “Con il greggio a 10 dollari il governo del moderato Mohammed Khatami venne messo alle strette, ma a prevalere poi fu Ahmadinejad esponente della linea dura dei Pasdaran. Oggi – conclude – se Rohani fallisce a Teherean vedremo altre facce al comando e ci ricorderemo di questo vertice Opec”. Per non pensare a chi potrebbe affacciarsi al Cremlino.

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