La questione siderurgica pare essere tornata al centro delle attenzioni del Paese. Ma non è così. È pur vero che quotidianamente leggiamo sui più importanti giornali interventi di firme autorevoli o inviti alla riflessione critica indirizzati al mondo di chi dovrebbe, pancia a terra, dedicarsi esclusivamente alla soluzione del problema. Alla fine, purtroppo, i rumorosi silenzi di molti superano nei fatti i chilometri di righe e i litri di inchiostro consumati dai più attenti commentatori economici.
Tra i muti e i silenti rumoreggiano gli industriali italiani dell’acciaio: i siderurgici del tondo per cemento armato, quelli dei prodotti lunghi, i mitici “bresciani”.
L’industria dell’acciaio italiana tace su Taranto
Un tempo protagonisti in Europa, capaci di sfidare le dinastie secolari del settore, in grado di imporsi per potere economico e per dinamicità sociale ai vertici del Paese. Oggi non una parola sul destino di Taranto. Non un’idea. Non un progetto. Non un impegno. Il loro Presidente (pur avendo cultura e danaro per essere della partita) si limita a dire che “…l’Europa dimentica l’acciaio”.
I Marcegaglia di Gazoldo sono ormai intrecciati con produttori di mezzo mondo, disseminando i loro interessi al di fuori dei confini italiani. Ma di Taranto sembra non intendano nemmeno parlarne.
I Riva (l’abbiamo detto pochi giorni fa su FIRSTonline) hanno nei loro geni imprenditoriali gli anticorpi che li tengono lontani dagli altiforni del Bel Paese. Arvedi ha da tempo scelto la nicchia di una altissima qualità e con Terni ha pagato il debito con l’acciaio italiano.
Tavoli, parole e immobilismo
Confindustria dice, giorno sì e giorno no, che l’Italia non può rinunciare all’acciaio da ciclo completo. Ma null’altro! Alla fine, anche “l’aquilotto” di Viale dell’Astronomia si accoda al chilometrico tavolo apparecchiato settimanalmente al ministero per ospitare associazioni, sindaci, sindacati, provincie e regioni ed umanità varie. Le Banche, gli Istituti nati col medio credito per sostenere la ripresa e lo sviluppo del Paese hanno volto lo sguardo e il portafoglio altrove. Solo Cassa Depositi e Prestiti si dice disponibile a metter un poco di danaro accanto al futuro socio.
L’opinione pubblica? La gente di Taranto e delle Puglie? Paiono sopite ed annebbiate. Persino gli addetti ai lavori, i dipendenti diretti ed indiretti (migliaia e migliaia) sembrano accontentarsi dalla ricorrente cassa integrazione che, in buona stagione, integra il diffuso e tollerato secondo lavoro.
Una crisi che tocca la sovranità
Non invidiamo il ministro Urso, obbligato a destreggiarsi con l’interlocutore industriale straniero di turno in un campo minato dagli incidenti impiantistici, dalle ordinanze della Magistratura civile e penale, dai Tar di mezza Italia, dalle mancate autorizzazioni integrate ambientali e da quelle di impatto sanitario foriere di prossime e future azioni di sequestro.
Si capisce a questo punto l’opinione di un vecchio e saggio sindacalista bresciano: “Intorno a Taranto occorre creare una barriera sanitaria, una sorta di presidio manu militari. Quello stabilimento non è più solo una questione nazionale ma una vera e propria questione di sovranità”.
Il che vuol dire mettere all’ordine del giorno non solo la trattativa con Baku Steel ma pure la nazionalizzazione del grande impianto.