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Disuguaglianza e austerità: le due sfide che dividono gli economisti

Al congresso mondiale degli economisti (IEA) la battaglia anti-liberista del premio Nobel Joe Stiglitz ha fatto grandi passi avanti e anche il Fondo Monetario ha oggi una flessibilità che in passato non aveva – Ma ci sono ancora due grosse questioni che spaccano gli studiosi: la disoccupazione e l’austerità, prezzi che non si possono pagare per lo sviluppo

Disuguaglianza e austerità: le due sfide che dividono gli economisti

Tra il 6 e il 10 giugno si è svolto il 17° Congresso mondiale della International Economic Association (IEA). L’evento ha cadenza triennale e stavolta si è tenuto al King Hussein Bin Talal International Conference Center, in un resort nato di recente dal nulla sulla riva giordana del Mar Morto. La IEA è un forum che ha sempre garantito discussioni pluralistiche, anche quando, negli scorsi decenni, nei meeting delle altre Associazioni degli economisti visioni non in linea con il pensiero unico del libero mercato non erano più tollerate. Per questo i messaggi che venivano dai congressi IEA erano sempre importanti. E tanto più lo sono oggi che il liberismo economico è stato terremotato dalla crisi epocale, nata proprio dal libero mercato, da cui i paesi ricchi stentano a uscire nonostante il ricorso a massicce politiche di stimolo, in violazione flagrante del comandamento di non interventismo professato dalla visione liberista stessa.

La scena del congresso è stata in ampia misura occupata dalla prorompente genialità di Joe Stiglitz, premio Nobel per l’economia nel 2001 e condottiero di tante guerre contro l’idolatria liberista: dalle accuse alla gestione, da parte dell’FMI, delle crisi sistemiche nelle economie emergenti e della transizione al mercato nei paesi ex comunisti; alle critiche al PIL come misura inadeguata del benessere dei popoli e che viola i principi base della sostenibilità necessaria per la sopravvivenza dell’umanità; all’attacco contro coloro che giustificano la disuguaglianza e persino la povertà come un costo temporaneo da pagare in cambio di più crescita economica; alla messa in ridicolo delle politiche di austerità fiscale che rischiano di produrre prolungati effetti depressivi per i cittadini dell’Eurozona.

Conosco personalmente Joe da quasi vent’anni e confesso che inizialmente, sebbene riscuotesse fin da subito la mia simpatia, avevo spesso pensato che avesse ragione su tante questioni ma non su tutte, e poi che fosse talora troppo estremista. Al contrario, dopo tutti questi anni si vede come i fatti gli hanno dato interamente ragione. Anche quando ha perso le prime battaglie, ha poi vinto la guerra. Un esempio per tutti. Alla fine degli anni Novanta, Stiglitz contestava l’approccio della terapia shock (es. caso Russia) da parte dell’FMI per la transizione dall’economia pianificata a quella di mercato, perché, a suo giudizio, non dava abbastanza tempo per far crescere l’assetto istituzionale, spingendo così al potere una classe di oligarchi parassiti. Faceva questa contestazione, assieme ad altre, all’interno del confronto con l’FMI da parte della Banca Mondiale, di cui lui era allora il Senior Vice-President. Joe perse il braccio di ferro e nel 1999 si dimise ma, senza deporre le armi, pur continuando a produrre anche lavori scientifici, diventò una “macchina da libri” divulgativi per entrare in presa diretta con la formazione dell’opinione pubblica globale. Ebbene, negli anni scorsi l’FMI ha cambiato idea e, guarda caso, suggerisce che le transizioni funzionano meglio se seguono un approccio gradualista (es. caso Cina). Ovviamente, Stiglitz non è solo nella IEA, ma, anche ora che è stato avvicendato alla presidenza da Tim Besley, il suo pensiero continua a essere il principale faro illuminante dell’Associazione. Voglio citare solo una delle battute più efficaci circolate al recente congresso. Lord Turner, già presidente della Financial Sector Authority britannica e ora al fianco di Joe all’Institute for New Economic Thinking, ha ricordato che negli anni Settanta-Ottanta vi fu nella professione economica un acceso dibattito tra la scuola di Cambridge-Boston (MIT e Harvard) e quella di Chicago. La seconda sosteneva la necessità di liberalizzare i mercati sempre e ovunque, la prima sosteneva invece che l’intervento pubblico è necessario per garantire la stabilità dell’economia di mercato. Dato che Boston si affaccia sull’oceano mentre Chicago si trova su un grande lago, questo dibattito è anche noto tra gli economisti come il dibattito tra “acqua dolce e acqua salata”. In passato aveva stravinto l’acqua dolce e ora, ha osservato Truner, per sancire invece la disfatta di Chicago Stiglitz ha scelto di organizzare il congresso mondiale della IEA sotto la sua presidenza sulle rive del mare più salato del mondo.

Che c’è dunque di nuovo dal 17° congresso IEA? Ci sono vari motivi di soddisfazione ma restano forti preoccupazioni su altri fronti. Un caso di successo riguarda le nuove misure di benessere, di cui l’Istat e in particolare Enrico Giovannini sono protagonisti attivi, che l’OCSE sta promuovendo non per sostituire il PIL ma per affiancargliele in modo da avere un cruscotto che dia una visione meno riduzionista del fenomeno economico e della situazione effettiva del consesso sociale. Un’altra, già accennata, è l’acquisita consapevolezza del fatto che il mercato non è un’entità astratta: è fatto di uomini e ha bisogno delle istituzioni che lo guidino a ben funzionare, da cui l’approccio gradualista a tutte le transizioni.

Ma l’FMI non ha rivisto la sua dottrina solo su questo. Un altro punto di frizione cruciale era quello della libertà dei movimenti di capitale e come essa potesse trasformarsi in un boomerang per i paesi che prima beneficiavano di frenetici afflussi nella fase di ottimismo ma poi venivano schiacciati dai deflussi quando subentrava il pessimismo. E anche su questo le istituzioni dominanti, in primis FMI ma non solo, hanno cambiato idea passando dalla strenua difesa della libertà di movimento dei capitali a tutti i costi e in qualsiasi circostanza a una visione più flessibile in cui, addirittura, si suggerisce ai paesi emergenti (esempio recente il Brasile) di introdurre vincoli agli afflussi nella fase di ottimismo per poi non essere troppo scottati dai successivi deflussi.

Persistono tuttavia due principali versanti sui quali l’applicazione di teorie, ancora in parte egemoniche, di stampo liberista sta facendo del male a molti popoli. Si tratta di due questioni, una strutturale e una congiunturale: la prima riguarda la tolleranza che si dovrebbe avere o meno verso la disuguaglianza e la povertà; la seconda verte sulla desiderabilità delle politiche di austerità, specie se attuate nel corso di forti recessioni, come in Europa.

Gran parte del congresso è stata dedicata alle questioni dello sviluppo economico e di quale tipo di sviluppo sia più efficace nel ridurre la povertà e la disuguaglianza. In effetti, lo spirito dominante alla IEA è quello che povertà e disuguaglianza non siano mai prezzi da pagare per accelerare lo sviluppo. Infatti, quel tipo di sviluppo che si realizza senza garantire inclusione è uno sviluppo zoppo che, prima o poi, mostrerà tutti i suoi limiti. Incidentalmente, si può notare come in questi casi la considerazione degli indici di benessere – che ovviamente peggiorano se c’è povertà o se cresce la disuguaglianza – consente di allertare sui successi effimeri che si avrebbero guardando solo alla crescita del PIL. E riguardo all’austerità le conclusioni sono ancor più negative. Le politiche di austerità rischiano di compromettere il futuro di intere generazioni, comprimendone conoscenze, competenze e opportunità di sviluppo.

Queste politiche rischiano di desertificare il sistema economico avendo effetti duraturi: una generazione di giovani che non si inserisce nel mercato del lavoro diviene un problema non solo per sé ma per l’intera società; la disoccupazione di lunga durata distrugge le capacità lavorative, ecc.. Insomma, il problema è quello che per salvaguardare le ragioni dei creditori si rischia di uccidere la società. Perciò, le vie d’uscita debbono contemplare – laddove l’indebitamento è insostenibile, vuoi per il debito pubblico o per quello privato – la possibilità di condivisione da parte dei creditori, che sacrificando una parte dei loro diritti legittimi consentano al sistema socio-economico di trovare soluzioni che tutelino ragionevolmente gli interessi di tutti.

Per questo, la teoria economica dominante, tutta incentrata su contratti precisi e immodificabili e sul libero mercato, deve essere superata per riarticolarsi in modelli più complessi capaci di rappresentare il benessere della società assieme a quello dei singoli individui, riassegnando un ruolo pregnante a governi capaci di curare anche l’interesse collettivo. In ciò, l’approccio riduzionista della “mano invisibile” – pensate solo al vostro interesse individuale perché sarà il libero mercato ad assicurare il benessere collettivo – ha fallito inesorabilmente e servono nuovi approcci. Tramite questi sarà probabilmente possibile, come sostenuto al congresso, giungere a riconoscere che sono mal posti i due classici trade-off al centro del dibattito economico. Vale a dire, se per non rinunciare alla crescita si debba tollerare crescente disuguaglianza e se, sempre per accelerare la crescita, occorra tollerare l’instabilità finanziaria. È difficile dire se e quando ciò si realizzerà. Ma, oltre alla più recente frequentazione della IEA, l’osservazione quasi ventennale di come le controverse idee di Stiglitz hanno regolarmente vinto, può indurci a un moderato ottimismo. Del resto, è abbastanza evidente a chi lo voglia vedere come le critiche del Financial Times al best seller di Picketty sulla crescente disuguaglianza si siano rivelate in gran parte strumentali. Così come, proprio in questi giorni, anche sul fronte dell’austerità in Europa sembrano vedersi luci alla fine del tunnel, grazie alla maestria di Mario Draghi e a una rinsavita Angela Merkel.

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