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Dieci paperoni come 3 milioni di poveri: Italia, Paese di diseguaglianze

In Italia i dieci più ricchi detengono una ricchezza pari a quella globale di tutti i poveri – E’ l’impietoso ritratto di uno studio della Banca d’Italia – In realtà i redditi sono omogeneamente distribuiti rispetto ad altri Paesi, mentre la ricchezza derivante da rendite di posizione e beni improduttivi è la ragione principale delle diseguaglianze.

Dieci paperoni come 3 milioni di poveri: Italia, Paese di diseguaglianze

Un paese a crescente diseguaglianza, in cui la distribuzione della ricchezza è altamente sensibile alla localizzazione geografica e al ceto, nonché al sesso, all’età, alla professione. Questo è l’impietoso ritratto di uno studio pubblicato dalla Banca d’Italia, che ha rimbalzato tra i media come una pallina impazzita, per un dato su tutti: nello stivale, i dieci italiani più ricchi detengono una ricchezza pari ai tre milioni di italiani più poveri. Un dato altamente sintetico, rappresentativo, ma che non consente di affrontare le cause principali dell’ingiustizia redistributiva del sistema economico.

L’Italia, infatti, paragonata al resto dei paesi sviluppati, non spicca nella classifica della diseguaglianza, ma un sondaggio della World Value Survey rivela che gli italiani considerano più importante l’equità nella distribuzione del benessere piuttosto che la libertà: il risultato evidenzia come le statistiche non possano, da sole, dare risposte esaurienti. L’indice Gini (misura d’elezione della diseguaglianza economica), infatti, restituendo una “fotografia dall’alto” rischia di rendere omogenei dati altamente significativi e differenziati.

L’Italia, infatti, se si dà uno sguardo al Gini relativo ai redditi da lavoro, si rivela un paese piuttosto equo. E’ invece l’indice che dipinge la distribuzione dei redditi patrimoniali a regalare un’immagine meno egualitaria: il benessere degli italiani è dislocato in gran parte in posizioni di rendita e beni patrimoniali. Mattone e attività finanziarie su tutti rivelano una spaccatura tra due macrosettori della società che hanno subito, negli ultimi trent’anni, alcuni scossoni.

Questi ultimi non hanno, però, riequilibrato i piatti della bilancia: se durante la cavalcata dei corsi azionari degli anni ’90, i detentori delle attività quotate (principalmente famiglie benestanti o ricche) hanno visto levitare la loro ricchezza, il calo dei listini degli anni 2000 ha restituito al mattone il primato nella rappresentatività della ricchezza patrimoniale, un primato che ha appianato, in parte, lo squilibrio derivante dal successo in borsa.

Le classi medie e medio-basse, esempio di virtuosità nel risparmio, hanno storicamente riversato in proprietà immobiliari una quota consistente dei risparmi, trovandosi poi relativamente avvantaggiate dopo che lo scoppio della bolla di Internet ha depresso i mercati finanziari, storicamente anemici in Italia. Questa dinamica si inserisce, poi, in un lungo cammino di crescita che ha visto aumentare di ben sette volte, a partire dal 1965, la ricchezza delle famiglie italiane, seppur con momenti di rallentamento: la lunga crisi degli anni ’70, il quadriennio ’81-’85, il biennio ’93-’94.

L’aumento esponenziale della ricchezza è stato, notoriamente, conseguenza di scelte politiche che hanno portato il debito pubblico dai livelli sostenibili dei primi anni ’70 a quelli attuali: se nel 1965 sulle spalle di ogni italiano gravava un fardello di 2.700 euro, per ripagare in blocco il debito pubblico ogni italiano dovrebbe, oggi, sborsarne ben 30.500, anziani e neonati compresi. E’ pur vero che una quota consistente del debito nostrano è detenuta dagli stessi cittadini, che hanno investito i loro risparmi, soprattutto a cavallo degli anni ’80, in obbligazioni pubbliche a tassi di interesse sempre crescenti, spesso a doppia cifra.

L’effetto è stato disastroso: soprattutto se osservato a posteriori, rendimenti così elevati hanno spiazzato risorse che avrebbero dovuto essere investite in settori produttivi dell’economia. Quei capitali hanno invece contribuito ad alimentare una spesa pubblica fuori controllo, in cui gli enti locali decidevano nel merito della spesa ma non ne erano responsabili, relegando il governo centrale a un ruolo di mero finanziatore di ultima istanza o procacciatore di rendite pensionistiche per puri scopi politici.

Non a caso a partire dal 1987 iniziavano a divaricarsi i cammini di due grandi categorie sociali: quella dei pensionati e quella delle famiglie – spesso operaie – a basso reddito: mentre nel ventennio 1987-2008 si registrava una diminuzione della ricchezza media delle famiglie operaie, la categoria dei pensionati ha beneficiato di un miglioramento netto nei livelli di ricchezza.

Dallo studio della Banca d’Italia si evince, dunque, che quel 40% della ricchezza nazionale, concentrato nelle mani del famigerato 10% più ricco delle famiglie, non è il frutto di un virtuoso ciclo di accumulazione del capitale che – pur con diseguaglianze crescenti – abbia quantomeno creato occupazione e sviluppo. E’, piuttosto, il risultato di un circolo vizioso che ha deviato le risorse produttive verso posizioni di rendita e oligopolio che hanno reso, complessivamente, fortemente inefficiente il sistema economico, ove lo stato non interveniva con misure tampone anch’esse al di fuori di una logica di mercato, meritocrazia, efficienza.

In questo contesto, il giudizio della Banca d’Italia sulle misure di tassazione patrimoniale adottate dal governo Monti è positivo: ristabilisce il principio che la ricchezza non produttiva deve essere responsabilizzata e pagare quella che Obama definisce la “giusta quota” delle imposte totali. A tal proposito, il reinserimento dell’Imu sulla prima casa, l’adeguamento degli estimi catastali, le misure di tassazione sui beni di lusso e il prelievo sui capitali scudati (tutte misure adottate con il decreto Salva-Italia) vengono considerati punto di convergenza di un regime di imposizione fiscale che sfugga a una demonizzazione tanto ideologica quanto controproducente della ricchezza, che potrebbe disincentivare la creazione di reddito e opportunità di sviluppo.

L’istituto di Via Nazionale ricorda che rimane, presso l’opinione pubblica, un tarlo, una convinzione diffusa e difficile da sradicare: quella che l’impegno e il merito personali giochino un ruolo secondario nel successo economico e professionale. Una banalità, ormai. Negli Stati Uniti, al contrario, l’opinione è ribaltata: nel sentire comune, sono proprio i valori e i meriti individuali a condizionare carriera e posizione economica. Se il governo dei tecnici ha preso le redini del Paese per correggerne i conti, non avrà certamente il tempo di porre rimedio alle tare culturali e alle radici profonde delle stesse. Il compito spetterà ai prossimi governi. Ne saranno all’altezza?


Allegati: diseguaglianza Banca d’Italia.pdf

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