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Covid-19, che comunicazione serve nella lotta alla pandemia?

Stanno uscendo molti libri sulla pandemia – Ecco che cosa racconta quello di Lelio Alfonso e Gianluca Comin, edito da Guerini e goWare, dal titolo “#ZONAROSSA. IL Covid-19 tra infodemia e comunicazione”

Covid-19, che comunicazione serve nella lotta alla pandemia?

Stanno iniziando a uscire molti libri sulla pandemia. L’iniziale cautela degli editori a imbarcarsi nella pubblicazione di libri su un fenomeno così traumatico, e per certi versi misterioso, sta iniziando a lasciare il posto a un maggiore impegno nel mettere in circolazione, idee, riflessioni, analisi, inchieste, ricerche che possono aiutare a far luce su questo fenomeno che ha colpito la nostra vita come un meteorite. 

Anche l’iniziale presa di posizione di Amazon di non far troppo spazio promozionale ai libri sul Covid-19 per evitare di contribuire alla confusione comunicativa derivante dalla diffusione, in forma di libri (uno strumento che indubbiamente ha un peso specifico diverso da un post di Facebook), di analisi approssimative se non apertamente tendenziose sta perdendo peso. 

Il colosso di Seattle sembra oggi meno preoccupato e giustamente sta iniziando ad aprire i suoi canali promozionali a produzioni sul Covid-19. 

Pandemia e comunicazione 

La copertina del recente libro edito da Guerini e Associati (con goWare per l’edizione digitale) dove due professionisti dei media come Lelio Alfonso e Gianluca Comin, raccolgono le loro riflessioni su uno degli aspetti maggiormente strategici della gestione della crisi pandemica: la comunicazione. 

In effetti c’è stato un bel caos comunicativo nei giorni concitati della diffusione del contagio al punto che è nato un neologismo: infodemia, la nuova malattia della comunicazione dell’era d.C. (dopo Coronavirus). 

Ad occuparsene con serietà e in modo documentato sono due studiosi esperti, ma anche professionisti, di media e comunicazione. 

Lelio Alfonso e Gianluca Comin, hanno dato alle stampe (con Guerini e Associati e goWare per la versione digitale) un libro che già nel titolo è un programma #ZONAROSSA. Il Covid-19 tra infodemia e comunicazione

Abbiamo verificato quanto la comunicazione sia un fattore strategico nella gestione della pandemia e l’analisi condotta in questo libro può aiutare la comunicazione istituzionale e quella emergenziale a metter a punto le forme e gli strumenti corretti per renderla all’altezza dell’immane sfida che queste forme estreme di crisi lanciano alla società nel suo complesso. 

Ecco un brano scelto dal libro

L’Italia e la Protezione civile: verso la «protezione comunicativa» 

Il quotidiano bollettino della Protezione civile nazionale, diramato alle 18 in diretta televisiva, mettendo dunque sullo stesso piano gli organi di informazione e i cittadini, si è dimostrato, almeno inizialmente, come l’antidoto diffuso all’invenzione di notizie che rimbalzavano nella rete rinfocolando un tribalismo social. Rispetto al clima ansiogeno e fortemente emotivo della televisione e dell’istantaneità digitale, ascoltare il bollettino è diventato per molti il vero appuntamento che cadenzava la permanenza forzata in casa. 

Ad accompagnare i cittadini nel corso di questa emergenza c’è stata, a parte alcuni giorni di assenza forzata dovuti a sintomi febbrili, la voce del capo della Protezione civile, Angelo Borrelli, affiancato da un numero ristretto di responsabili dell’Istituto Superiore di Sanità, del Ministero e altri esperti a turno, chiamati a rispondere alle domande dei giornalisti presenti oltre che a fornire elementi specifici di informazione sui vari fronti di contrasto all’epidemia. 

Un servizio che ha consentito al cittadino di disporre di un chiaro quadro della situazione giornaliera, senza dubbio, ma anche in questo caso non privo, parafrasando la terminologia medica, di controindicazioni. […] Purtroppo non di rado i dati offerti sono apparsi decontestualizzati e poco chiari. Innanzitutto, nel bollettino non si distinguono i morti per il coronavirus o con il coronavirus e questo ha creato non pochi dubbi. 

La comunicazione dei dati è stata poco efficiente, come ha sottolineato più volte Francesco Giorgino, per tre motivi fondamentali: nel corso delle conferenze stampa sono mancati i data interpreters e le videografiche; non è stata fornita la giusta proporzione dei dati, visto che i tassi e le percentuali sono molto più importanti di altri indicatori per capire cosa sta accadendo; e, infine, la sequenza con cui sono stati comunicati è stata essenzialmente sbagliata. 

Invece di procedere con il numero dei contagiati, dei deceduti e dei guariti, sarebbe stato molto più intuitivo e funzionale comunicare i nuovi contagiati, poi i guariti e infine il numero dei deceduti della giornata. Anche il ruolo della Protezione civile, però, è cambiato con l’avvicinarsi della Fase 2. Le conferenze stampa sono diminuite di frequenza e il «tono» si è affievolito, così come era accaduto per le istituzioni. 

Il tutto fino alla decisione, il 30 aprile, di sospendere l’appuntamento. Un’uscita di scena intenzionale e funzionale a un rientro alla normalità? 

Costruire una nuova società dell’informazione 

Creare una nuova società dell’informazione significa permettere a una società matura di sviluppare un cosciente senso critico, in grado di discernere le giuste informazioni e di usare i social con giudizio. In poche parole, si tratta di fornire una sorta di policy che aiuti i cittadini a vivere nel mondo virtuale. Infatti, seppur la molteplicità dei canali informativi abbia garantito una differenziazione di pensiero, questa ha favorito troppo spesso l’insorgenza di fake news. 

La dichiarazione di pandemia, differentemente da quanto percepito da molti degli italiani, è una testimonianza sulla diffusione geografica, non sulla gravità della malattia, ed è proprio la viralità dell’informazione la responsabile dei comportamenti sociali di questi mesi. Al fine di creare una società dell’informazione a prova di pandemia è fondamentale, innanzitutto, educarla al linguaggio, ricordando la differenziazione tra linguaggio scientifico, istituzionale e virale. 

Purtroppo, un grande ostacolo è proprio l’accesso alle informazioni. Possiamo affermare che l’informazione, nel corso di questa pandemia, sia stata libera? […] Se è vero che molti giornali hanno diminuito il prezzo degli abbonamenti e molti esperti e professionisti hanno messo a disposizione delle persone il proprio sapere gratuitamente, è anche vero che molti degli studi sulle riviste specializzate sono stati sempre sottoposti a paywall. Come è possibile, dunque, costruire una società dell’informazione nell’emergenza se questa è a pagamento? 

Significherebbe creare una società disomogenea e le autorità e i soggetti competenti, pro futuro, dovrebbero riflettere su questo aspetto e prevedere, qualora non fosse possibile rendere accessibili a tutti gli studi più importanti relativi all’emergenza in corso, sistemi informativi alternativi in grado di raggiungere tutti gli strati della popolazione. 

Come ha scritto Mario Draghi, ex presidente della Banca Centrale Europea, in un lungo articolo sul Financial Times pubblicato a fine marzo, c’è bisogno di intraprendere azioni immediate, chiare e concrete. Nel suo intervento, Draghi ha spiegato con schiettezza e semplicità quello che potrebbe presentarsi come lo scenario economico post-Covid-19. Grazie alle sue parole schiette e incisive è stato possibile, per tutti i cittadini, acquisire facilmente informazioni relative ai livelli di debito pubblico e agli scenari economici futuri. 

Degna di nota, dunque, la sua strategia comunicativa, esempio per tutti gli attori coinvolti nell’emergenza. […] Proprio così, nel ridefinire la nuova società dell’informazione è importante istruire all’utilizzo dei siti istituzionali e valorizzare 

esperti riconosciuti come fonte primaria. Questi, infine, dovranno essere in grado di comunicare, come in questo caso, in maniera schietta, veloce e comprensibile ai cittadini. 

Che ne sarà di noi? Le domande aperte e le prospettive future 

Se, come dimostrato dall’ormai storico report condotto dai ricercatori dell’Imperial College di Londra, la lotta al Covid-19 durerà, nel migliore dei casi, il tempo di trovare un vaccino, quindi all’incirca un anno e mezzo, le domande relative alle prospettive future si moltiplicheranno e diventeranno sempre più complesse. 

Le nostre abitudini sono state stravolte in ogni campo, dall’educazione alla vita sentimentale, dalla possibilità di fare carriera a quella di vedere i propri cari, e i risvolti e i costi umani, economici e psicologici sono difficilmente quantificabili. 

Per questo è necessario per istituzioni e aziende iniziare a pensare, cooperativamente, a una strategia di unlocking. Questa strategia doveva essere elaborata nello stesso momento del periodo di lockdown. L’uscita dall’emergenza Covid-19, così come da qualsiasi altra situazione avente carattere di eccezionalità, deve essere attentamente studiata, pianificata, calibrata. Non solo per gli impatti economici, ma per gli effetti psicologici che la nuova apertura avrà su ognuno di noi. Scenari lunari che, oramai, fanno parte della nostra quotidianità: limitazione alla libertà di movimento, mascherine parti integranti del nostro abbigliamento, morti nelle carceri, inquinamento dimezzato, cassa integrazione per migliaia di lavoratori. 

Cosa ne sarà dopo? Sarà così facile tornare alla normalità? I più fortunati hanno trascorso la quarantena assieme ai propri cari. Pensiamo, invece, a tutti quelli che hanno avuto famiglie, fidanzati e amici lontani dal proprio luogo di reclusione. Cosa ne sarà di loro? Assisteremo a un nuovo esodo? E quanto impatterà questa libera uscita sul mercato del lavoro? Frustrati e costretti a uno smart working pressante e interminabile, i lavoratori che hanno avuto la fortuna di non vedere interrotte le proprie carriere cercheranno ristoro in qualche isola felice? 

Ci troveremo certamente dinanzi a un mondo sconvolto, in cui i webinar prenderanno il posto dei convegni e alle strette di mano si sostituirà un trillo d’accesso a una piattaforma web. Eppure, c’è anche chi vede nella portata di questo stravolgimento un’opportunità, e sta investendo tempo, risorse e denaro in questi nuovi sistemi di relazione. 

Dunque, in questa che potremmo davvero definire la Fase 2, quella di uscita lenta e consapevole da una situazione di un così elevato livello di complessità, veniamo chiamati in causa tutti noi: è necessario ripensare le nostre vite, il nostro modo di gestire le relazioni interpersonali e lavorative. Siamo tutti chiamati a compiere uno sforzo che sia in grado di ripensare il nostro modo di vivere e questo deve necessariamente partire dal modo in cui comunichiamo. 

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