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Cotoni Albini: “Filiera e sostenibilità, ecco come resistiamo alla Cina”

INTERVISTA A STEFANO ALBINI, presidente della storica azienda famigliare bergamasca, che vende tessuti per camicie ai grandi marchi del lusso: “Siamo alla quinta generazione, ma il futuro potrebbe essere sul mercato”.

Cotoni Albini: “Filiera e sostenibilità, ecco come resistiamo alla Cina”

Dal campo di cotone al tessuto finito, con una cura dei dettagli che nemmeno le più sofisticate macchine potranno mai sostituire. Non è un caso se Albini, azienda familiare bergamasca fondata nel 1876, è il primo produttore europeo di tessuti per camicie e realizza il 70% dei suoi oltre 150 milioni di fatturato all’estero, fornendo praticamente tutti i grandi gruppi del lusso che con i suoi tessuti, confezionati per raggiungere gli standard di qualità più alti, producono oltre 7 milioni di camicie ogni anno, tra cui quelle indossate dai reali inglesi.

Albini è una delle poche realtà della storica filiera tessile bergamasca ad essere sopravvissuta alla crisi e a restare made in Italy, mettendo ai primi posti la sostenibilità: “Ce ne occupiamo da oltre dieci anni, quando ancora non andava di moda”, spiega in una lunga intervista a FIRSTonline il presidente Stefano Albini, quinta generazione di una dinastia imprenditoriale che ha saputo superare una fase critica in seguito all’improvvisa scomparsa, nel gennaio del 2018, di Silvio Albini, fratello di Stefano e figura di riferimento del mondo del tessile e della moda per molti anni.  

“Le materie prime vengono importate da Egitto, California, Barbados e Giamaica ma praticamente tutta la lavorazione avviene in Italia dove abbiamo 4 stabilimenti: due qui nel bergamasco, uno in provincia di Varese per il finissaggio e uno in Puglia, a Mottola”, racconta Albini svelando i segreti di un’azienda dove la produzione viene sì facilitata e velocizzata dalle macchine, ma dove in ogni passaggio il tessuto viene accuratamente controllato da più occhi umani e da mani sapienti, per consegnare un prodotto finito destinato alla clientela top di gamma dei brand di alta moda o addirittura della camiceria sartoriale su misura.

Solo l’ultima fase, quella dei test di resistenza del tessuto allo sfregamento e del colore al lavaggio, dura per ogni singolo prodotto fino a 3 giorni e impiega 30 persone (sui 1.400 dipendenti totali del gruppo). Un lavoro quasi artigianale che vede protagoniste le donne (che rappresentano il 60% della manodopera): “La manualità rimane importante in tutta la produzione, ma in alcuni passaggi la sensibilità e abilità femminile sono insostituibili, si tratta di un vero e proprio know how tramandato da generazioni”.

Presidente, nel 2018 avete realizzato uno dei migliori fatturati di sempre, sopra i 150 milioni. Nonostante l’improvvisa scomparsa di suo fratello e i tempi non proprio facilissimi. Come ce l’avete fatta?

“Il nostro miglior risultato di sempre rimane quello del 2007, appena prima della crisi, quando toccammo i 175 milioni. Ma in quegli anni ci aiutò la bolla finanziaria, per cui si tratta di un risultato che possiamo definire parzialmente ‘dopato’, mentre quello dell’anno scorso è stato un ottimo risultato effettivo. Dopo la scomparsa di Silvio, che è stato il primo esponente della quinta generazione ad entrare in azienda e che dalla metà degli anni ’80 iniziò il percorso di internazionalizzazione portando il fatturato dai 20-30 milioni di allora ai 175 del 2007, è seguita una reazione interna, della famiglia, del management e di ogni collaboratore così forte da consentire la chiusura dell’esercizio in crescita. L’eredità culturale e imprenditoriale di mio fratello Silvio, e la qualità del gruppo dirigente e la lealtà verso i valori aziendali, sono stati il motore che ci ha spinto ai risultati positivi. Abbiamo saputo ricompattarci e abbiamo riorganizzato l’azienda, puntando sulla continuità ma modernizzando la governance. Per questo abbiamo anche scelto un amministratore delegato esterno, Fabio Tamburini, un professionista che era di casa in quanto già nostro consulente”.

Per questo siete sopravvissuti, mentre molti concorrenti hanno chiuso i battenti?

“Sì, perché dal 2000 in poi, dopo l’apertura al mercato cinese, per chi si era dedicato solo al mercato domestico è stato impossibile reggere l’urto della concorrenza. Albini aveva pensato per tempo a presidiare i mercati esteri, puntando sempre sulla fascia alta. Tuttavia non è solo l’alta qualità a distinguerci, perché la Cina è capace anche di produrre eccellenze e avrebbe comunque potuto metterci in ginocchio. Il nostro valore aggiunto sono stati, oltre alla qualità di materie prime e prodotto, i servizi, la varietà dell’offerta, la velocità nell’intercettare le tendenze e le esigenze dei clienti, il branding, la creatività e il Dna manifatturiero che ci portiamo dentro da oltre 140 anni. E tutto questo è stato possibile perché controlliamo tutte le fasi della filiera, dalla coltivazione dei campi di cotone alla consegna del prodotto finito. Il controllo diretto dell’intera filiera produttiva, dalla materia prima al tessuto finito, costituisce un’unicità nel settore tessile per camiceria”.

Andrea, Fabio e Stefano Albini
Andrea, Fabio e Stefano Albini

Il 2019 come si annuncia? Non è stato un anno brillante per l’economia italiana e nemmeno sul fronte internazionale…

“Il 2019 è un anno di riflessione e consolidamento. Il primo semestre è stato negativo, condizionato non tanto dalle tensioni commerciali Usa-Cina quanto dalla stagnazione dell’economia europea. Ci hanno penalizzato Brexit, i gilets gialli e il rallentamento tedesco, tutti fattori che hanno raffreddato gli animi e rallentato i consumi. La seconda metà dell’anno invece ci sta facendo pensare a un recupero, anche se non sufficiente a compensare il calo iniziale. Siamo più fiduciosi per il 2020″.

E la situazione in Italia, tra incertezza politica e crisi industriali, come ha influito?

“Il cambio di governo ad agosto ha giovato al Paese, che è tornato ad essere più affidabile, anche se il made in Italy nel mondo aveva comunque continuato a godere di forte considerazione. Certo è però che le tasse, la burocrazia, e le infrastrutture restano un problema, così come i consumi che sono ancora rallentati. Questo crea un clima di sfiducia che scoraggia ulteriormente le aziende ad investire e rallenta la ripresa del ciclo economico. Uno dei motivi principali delle nostre difficoltà è psicologico. Oggi prevale la prudenza: negli anni d’oro investivamo 3-4 volte quanto facciamo oggi, anche se comunque a inizio 2019 abbiamo avviato un piano di investimenti per il triennio in impianti industriali e attività di ricerca e innovazione”.

Dunque credete ancora nel futuro?

“Sì, al punto che quest’estate abbiamo lanciato Albini Next, un think tank per studiare i tessuti del futuro. All’interno del Kilometro Rosso, l’ecosistema dell’innovazione creato da Alberto Bombassei a pochi passi da qui, vogliamo creare una sorta di ‘Silicon Valley’ del tessile. Il nostro team di creativi, designer, artisti, informatici, ingegneri ed economisti si confronterà ogni giorno con università, centri di ricerca, startup tecnologiche”.

Una lavoratrice dello stabilimento di Albini
Impiegata al lavoro nello stabilimento di Albino

A proposito di investimenti e innovazione, quanto ha fatto comodo un piano come Industria 4.0, nel vostro settore?

“E’ stato molto importante e ha avuto un impatto positivo e tangibile sulla produzione e anche sui risultati finanziari. Non saprei quantificare i benefici ma ci sono stati, è un programma che andrebbe confermato”.

Siete uno dei pochi casi di capitalismo familiare che sopravvive alla globalizzazione. In futuro immaginate di aprire ad investitori esterni o addirittura di quotarvi in Borsa?

“Intanto, per facilitare un processo di ‘svecchiamento’ della governance familiare, abbiamo aderito al progetto Elite lanciato nel 2016 da Borsa Italiana. Ad oggi non sono sul tavolo né la Borsa né l’apertura del capitale a fondi di private equity. Non è però escluso a priori in futuro l’apertura al mercato”.

Intanto, per garantire dei passaggi generazionali che mantengano l’azienda ad alti livelli, avete imposto regole ferree.

“La sesta generazione sta per arrivare: in famiglia abbiamo 27 nipoti. Molti stanno già prendendo altre strade, ma almeno una decina di papabili per entrare in azienda ci sono. Abbiamo sancito le regole d’ingresso attraverso un preciso Patto di famiglia: si chiedono competenze, passione, aspirazione e un’esperienza all’estero, di un certo livello, di almeno cinque anni”.

Stefano Albini visita piantagione di cotone
Gruppo Albini

Capitolo sostenibilità: è il driver del momento, ma voi siete pionieri.

“Mio fratello Silvio ci aveva pensato più di dieci anni fa, quando non ne parlava nessuno. Innanzitutto, il nostro cotone è 100% tracciato, dalla coltivazione, per la quale certifichiamo i requisiti ambientali ed etici, al prodotto finito. Poi, abbiamo da anni lanciato ECOtone, il tessuto realizzato con cotone organico, che oggi rappresenta già il 10% della nostra produzione ma che nel giro di 2-3 anni potrebbe arrivare al 40% o forse anche oltre. Siamo impegnati anche nel risparmio energetico, attraverso Albini Energia, una energy service company che offre consulenza e progetta soluzioni industriali a basso impatto ambientale”.

C’è però anche il tema dell’acqua: per produrre una camicia servono centinaia se non migliaia di litri d’acqua e il settore tessile oggi è il secondo più inquinante dopo quello petrolchimico.

“Le nostre macchine di ultima generazione hanno ridotto del 30-40% il consumo di acqua rispetto al passato, e per quanto riguarda i coloranti abbiamo un sistema di depurazione dei prodotti chimici che ci permette di reimmettere nell’ambiente acqua al 100% pulita. E vorrei aggiungere che non puntiamo solo sul cotone organico ma anche su altri tessuti naturali particolarmente ecosostenibili come il lino, che già rappresenta un quinto delle nostre vendite, l’olio di ricino, e la canapa, che è tutta da esplorare e sarà la nuova frontiera come materia prima. E poi ovviamente pratichiamo l’economia circolare e ricicliamo i tessuti”.

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