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Cinema: duro e intenso, “Detroit” fa il pieno di adrenalina

Presa diretta, a spalla, riprese “muscolari” per raccontare una storia di razzismo e i gravi fatti che insanguinarono Detroit negli anni ’60: il film della regista Kathryn Ann Bigelow racconta fatti poco conosciuti ma di grande intensità.

Cinema: duro e intenso, “Detroit” fa il pieno di adrenalina

Un film duro, forte, intenso come raramente si vede nei nostri schermi. Tanto duro quanto solo la realtà può rappresentare. Tanto forte solo quanto il dolore fisico e morale può essere e tanto denso solo quanto chi conosce il mestiere del cinema può comprendere. Parliamo di Detroit, uscito nei giorni scorsi nelle sale italiane firmato alla regia da Kathryn Ann Bigelow,  la prima donna ad aver vinto un Oscar con The Hurt Loker. Sempre lei ha firmato uno dei film cult degli anni ’90: Point Break – Punto di rottura.

Viene in mente Arthur Shopenhauer quando ci ricorda che “Il più insignificante presente ha, rispetto al più insignificante passato, il vantaggio della realtà” e proprio in questi termini si svolge il tema proposto da Detroit, il nome della grande città industriale sede delle maggiori industrie automobilistiche americane. Il film racconta di un viaggio solo apparente nella storia recente delle ingiustizie e ineguaglianze tra individui, indipendentemente dal colore della loro pelle. In questo luogo, socialmente ed economicamente complesso, negli anni ’60 si riversano migliaia di persone di colore in cerca di lavoro, di futuro, di sicurezza che invece non trovano.

La storia riguarda i fatti drammatici che coinvolsero appunto la città di Detroit, nel Michigan, nel luglio del ’67, nel pieno periodo delle grandi battaglie per l’affermazione dei diritti civili negli Stati Uniti. Giusto un anno dopo, a Memphis, Martin Luther King venne assassinato. In particolare, il film riporta una vicenda alquanto sconosciuta nel resto del mondo: durante i disordini, in un motel da dove si sospetta siano stati esplosi colpi di arma da fuoco, dopo un’irruzione, vengono uccise tre persone di colore per mano di poliziotti violenti, razzisti e carichi di odio. In seguito verranno arrestati e processati.

Non aggiungiamo nulla di più nel merito della storia non perché ci debba essere qualche sorpresa che non vogliamo svelare ma solo perché, in verità, per questo tipo di storie la parola fine, forse, non è stata ancora scritta. Il film si svolge con un tono, definito da alcuni critici “muscolare”, per quanto la cinepresa è in grado di restituire allo spettatore una dose di adrenalina superiore alla media di ogni banale film di azione. A proposito di cinepresa, merita una segnalazione l’utilizzo della presa diretta, a spalla, in maniera eccezionale, di grande capacità. Il tutto, con un montaggio di pari livello tanto da far scorrere la prima parte del film senza un attimo di pausa narrativa. I protagonisti, tutti, sono assolutamente all’altezza di professionalità espressiva di alto livello, in grado di rendere credibili i ruoli che ricoprono.

La prima parte del film si vorrebbe quasi che terminasse prima possibile per quanto la tensione rappresentata è alta. La seconda parte consente invece di riprendere fiato ma rimane sullo sfondo un senso di stordimento irrisolto. Gli artefici della violenza vengono mostrati, inseriti, in un contesto giuridico, politico e sociale, che sembra in qualche modo essere complice. La cinematografia americana è tornata spesso e volentieri sul tema del razzismo, del passato e del presente, ed ogni volta non è stata avara di emozioni in grado di suscitare legittima e doverosa riprovazione. Uno su tutti: Il buio oltre la siepe, tre premi oscar. Il film della Bigelow prosegue degnamente questa tradizione e, fosse solo per questo, merita la visione. Da annotare un eccesso di sceneggiatura emotiva a scapito di una lettura più attenta e approfondita sul tema delle diseguaglianze razziali. Siamo però solo al cinema e ci si può accontentare del suo contributo a tenere aperto il cassetto della memoria.

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