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Cinema: macché major, c’è Lionsgate

Roger Ebert, il leggendario critico cinematografico del “Chicago Sun-Times” scomparso lo scorso anno, diceva che “quando Hollywood si sente minacciata si rifugia nella tecnologia”: ma ora la rete è una risorsa o una minaccia per il cinema?

Cinema: macché major, c’è Lionsgate

Da rifugio a minaccia

Roger Ebert, il leggendario critico cinematografico del “Chicago Sun-Times” scomparso lo scorso anno, diceva che “quando Hollywood si sente minacciata si rifugia nella tecnologia”. Paradossalmente oggi è proprio la tecnologia, insieme alle cinematografie emergenti, la minaccia più incombente per Hollywood. È successo che il porto sicuro è divenuto un porto ostile. Altro che rifugio! Il web, il vento più impetuoso della tecnologia, sta portando l’incendio nel giardino di casa delle major hollywoodiane.

L’industria del cinema è in buona compagnia: qualsiasi settore della vecchia economia si sente profondamente minacciato dalla valanga di innovazioni che la rete ha scatenato. Adesso, specialmente in Europa, si inizia a temere, più di ogni altra cosa, la sfrontatezza, al limite dell’insolenza, dei giovani cowboy che guidano la carovana della nuova economia. È anche difficile capire come prenderli: gli spagnoli hanno fatto una legge, per carità che più sbagliata non si può, e il giorno dopo è stato chiuso un servizio frequentato da milioni di utenti che portava un miliardo di contatti alla settimana all’agonizzante stampa del paese iberico. L’Europa, oggi una regione abitata da gente tranquilla e avvezza al quieto vivere, ha proprio perso la pazienza con il rischio di fare solo cose sbagliate. Difficile regolarsi. C’è da dire però, che non è colpa di Google, né di Amazon, né di Apple se l’industria tecnologica europea soffre di nanismo.

Netflix e YouTube

Netflix, che Hollywood considerava come l’esercito albanese alla conquista del mondo allo stesso modo che Nabucodonosor guardava all’esercito di Ciro, è appena uscita con una produzione degna di Hollywood. Si tratta di Marco Polo, girato interamente in ultra alta definizione (4K) che equipara l’esperienza della visione in TV a quella del cinema. Marco Polo è un investimento da 90 milioni di dollari che probabilmente genererà un margine da blockbuster a Netflix visto che il serial si rivolge astutamente ai due spicchi di pubblico più interessanti per la cinematografia di oggi: il pubblico occidentale e il pubblico cinese. La figura del viaggiatore veneziano, che affascina anche all’ambizioso e potente leader cinese Xi Jinping, può essere davvero il trait-d’union culturale tra questi due mondi e quindi qualcosa dal potenziale commerciale enorme. Il copione di Marco Polo ha girato un bel po’ nella capitale del cinema, prima di essere intercettato da Netflix che dista 340 miglia da Hollywood. Netflix l’ha preso subito e ha messo fuori l’investimento che questa megaproduzione richiedeva.

YouTube è l’altra minaccia, fors’anche ancor più subdola, perché si tratta di un vero e proprio ecosistema che si va ponendo, sottotraccia, in diretta concorrenza con Hollywood. YouTube da luogo del cazzeggio globale e del dilettantismo senza freni si sta trasformando in una nuova Hollywood, fatta e frequentata dalle star e dal pubblico del futuro. Anche se a YouTube manca di tutto quello che Hollywood ha – cioè soldi, competenze e relazioni –, i migliaia di canali della piattaforma di video-sharing servono sei miliardi di ore di video alla settimana. Non c’è ancora il grande business su YouTube, ma ci sarà per quelli che ci sono e Hollywood, tragicamente, non c’è: la disconnessione da questo fenomeno è quasi totale come mostra un recente e accurato articolo del “New Yorker”. Forse non è ancora del tutto radicata la consapevolezza che Netflix e YouTube stanno al video in tutte le sue manifestazioni come Amazon sta ai libri.

Lionsgate

Le major di Hollywood sono abbastanza frastornate: continuano a sfornare blockbuster da vertigine ma il mood è piuttosto nero. Ecco che Lionsgate, una mimi major nata a Vancouver nella British Columbia (1078 miglia da Hollywood), sta mostrando due cose: come lavorare con Internet e come organizzarsi per gestire il processo di disruption dell’industria tradizionale del cinema.

Lionsgate è cresciuta sugli avanzi dei grandi studios: le major di Hollywood si tengono a debita distanza da film controversi e incandescenti come Fahrenheit 9/11 di Michael Moore o W di Oliver Stone oppure da film d’essai come Dogma di Lars Von Trier o Ghost Dog – Il codice del samurai di Jim Jarmusch. Tutti questi film sono stati distribuiti nel Nord America da Lionsgate che con il tempo è diventato il maggior distributore e produttore di film indipendenti. Con gli avanzi dei grandi distributori hollywoodiani, Lionsgate ha oggi una quota di mercato del 7,2% ed è la settima major per margine commerciale. Abituata a lavorare con prodotti a budget ridotto, ha sviluppato una certa capacità ad avere il miglior ROI sull’investimento marketing. Come fa Lionsgate a ottimizzare l’investimento marketing che anche per una grande produzione come Hunger Games è stato la metà di quello che le major spendono per promuovere un potenziale best seller? Comunque faccia Lionsgate è sotto i riflettori non solo del pubblico ma anche degli investitori. L’immobiliarista Wang Jianlin, l’uomo più ricco della Cina dopo Jack Ma e già proprietario di AMC Entertainment Holdings la catena di sale cinematografiche più grande del mondo, si appresta ad assumere il controllo di Lionsgate. Wang ama fare le cose in grande e c’è da aspettarsi una bella iniezioni di energia nella società di Vancouver.

Sinergia con i tecnologici e mentalità da start-up

Ebbene Lionsgate sa lavorare bene con i social media e su YouTube e sa essere sinergica con le società tecnologiche che conoscono la rete come il garage di casa. Nel lancio di Hunger Games è risultata decisiva la collaborazione con Google, a cui la grande Hollywood guarda con un sentimento che oscilla tra l’adozione e l’infanticidio.

La tecnologia e la sinergia con i tecnologici e la ricetta del successo di Liongate; una ricetta che è anche una vecchia conoscenza di Hollywood e qualcosa che sa fare molto bene, si chiama marketing e creatività. Se la tecnologia, alla fine, potrebbe sgretolare Hollywood forse sarà il marketing a salvare questa storica industria del divertimento. Come, però, mostra Lionsgate non è il marketing dei grandi budget e dei grandi sperperi a cui Hollywood è abituata. È il marketing dei social e delle start-up.

Tanto le major di Hollywood sono gerarchiche, piramidali e ossessivamente procedurali nelle formazione delle decisioni, tanto Lionsgate si muove con la mentalità di una start-up tecnologica. Ogni testa può essere una risorsa inestimabile per creare valore aggiunto alla società. Tim Palen, il direttore marketing di Lionsgate, realizza personalmente i servizi fotografici sui set dei film. Brook Barnes sul NYTimes ci informa che Palen ha fatto risparmiare a Lionsgate i 250mila dollari di un fotografo professionista. Il servizio sul set di Hunger Games è costato a Lionsgate un biglietto aereo e una notte d’albergo (immagino a 5 stelle). Del resto, chi meglio di un direttore marketing può conoscere meglio che cosa mettere nei poster di una campagna promozionale?

Ciò sarebbe perfino inconcepibile in una major: il comportamento di Palen sarebbe bollato come micromanagingdilettantismo. Nelle major la burocrazia è davvero un rifugio: il rispetto delle procedure, delle gerarchie e della compartimentazione è una sorta di anticorpo del management degli studios dal rischio altissimo insito nel loro lavoro e attenua il colpo di ritorno di un possibile e probabile  fallimento. Il cinema è imprevedibile: gli analisti di Goldman Sachs riescono a fare previsioni su tutto e difficilmente sbagliano, ma quando si tratta di prevedere i ricavi di un film, alzano bandiera bianca.

L’autarchia delle major è una follia

Torniamo qui su un punto su cui insistiamo da tempo: i grandi gruppi media abituati a controllare l’industria culturale, nel nuovo scenario determinato dalla rete devono iniziare a considerare le società tecnologiche come una risorsa fondamentale delle loro attività e delle loro strategie commerciali e di marketing.

Ecco che i grandi gruppi devono metter da parte l’ossessione del controllo del business e avvicinarsi all’idea di una sorta di diarchia. La velleità del controllo totale del business digitale finora hanno prodotto, se si esclude Hulu.com, risultati pessimi. La tecnologia, intesa come un sistema di cambiamenti che delineano un nuovo ambiente mentale e operativo a tutti i livelli, è un qualcosa di alieno ai grandi gruppi media, non è parte della loro cultura e alle volte ne è proprio la negazione. Ecco perché questi gruppi hanno bisogno delle nuove società tecnologiche con cui allearsi e spartire le enormi risorse che la rivoluzione digitale può generare. È il passo decisivo che ha compiuto Lionsgate e i risultati si vedono!

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