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Chiudere i centri commerciali la domenica? Chi vince e chi perde

L’intenzione di chiudere centri commerciali la domenica rischia di far saltare migliaia di posti di lavoro e solleva una domanda di fondo: la chiusura aiuterebbe davvero il piccolo commercio o sarebbe una manna dal cielo per chi, come Amazon, domina l’e-commerce?

Chiudere i centri commerciali la domenica? Chi vince e chi perde

Il dibattito che si è aperto subito dopo l’annuncio del vice Presidente del Consiglio, nonché  ministro dello sviluppo economico e del lavoro Luigi Di Maio, di voler vietare l’apertura degli esercizi commerciali durante le festività, abrogando la liberalizzazione adottata dal Governo Monti con il Decreto Italia nel 2012, ha sollevato più preoccupazioni che consensi spingendo il leader dei 5Stelle ad una parziale rettifica che consentirebbe al 25% delle strutture commerciali di rimanere aperte (a rotazione) anche le domeniche.

Non è ancora disponibile una bozza di fonte governativa della norma: la vicenda segue il percorso confuso di gran parte dei provvedimenti di questa maggioranza impossibile per la quale dichiarazioni, annunci, indiscrezioni, producono una matassa ingarbugliata di notizie, difficile da sbrogliare, ma utilissima nel produrre polveroni che si diradano solo quando la maggioranza di Governo ha trovato un compromesso e può andare unita in Parlamento. Di solito la Tavola della Legge a cui far riferimento è il contratto per il Governo del cambiamento, che però al riguardo non contiene alcuna indicazione specifica.

Su questa materia, come su altre, si fronteggiano linee differenti dei due partiti di governo. La Lega ha proposto di escludere dal futuro provvedimento le località turistiche che potrebbe però voler dire tutto il territorio italiano. Il partito di Salvini mostra una maggiore sensibilità sui temi dell’occupazione, in sintonia col proprio elettorato nel quale deve però tener in debito conto anche una importante organizzazione come la Confcommercio, che rappresenta i negozianti. I 5 Stelle potrebbero contare sulle organizzazioni sindacali, che non sembrano però aver gradito molto di essere state scavalcate con un semplice annuncio da Di Maio senza alcun esplicito rinvio alla contrattazione per minimizzare i temuti i danni occupazionali.

Senza dimenticare la Chiesa Cattolica, la cui influenza su un tema di questo genere potrebbe essere però essere circoscritta. Si può supporre che i più favorevoli alla chiusura festiva si ritrovino fra i dipendenti dei centri commerciali, ma non sarebbe una sorpresa se tra i lavoratori della grande distribuzione più giovani e senza impegni di famiglia, l’apertura nelle festività fosse vista come un’opportunità di guadagnare qualcosa in più e disporre di maggior autonomia nell’organizzare il proprio tempo libero. Dato l’alto numero di clienti (12 milioni) che frequentano nei giorni di festa le grandi strutture commerciali, si dovrebbe dedurre che la maggioranza dei residenti nel nostro paese accetti o comunque non sia ostile alle aperture domenicali.

D’altra parte è tutto da dimostrare che il blocco domenicale delle vendite possa costituire un vantaggio per il piccolo commercio che oggi si sviluppo sul lato della specificità professionale dell’ offerta e del rapporto personale con il consumatore. Invece, questo aspetto rimane tuttora aperto, le chiusure dei centri commerciali domenicali sono certo un favore (imprevedibile?) per il web-commerce, cui non sarebbe facile imporre vincoli efficaci di funzionamento durante le giornate festive.

La domanda più importante rimane quella fatta per gli effetti del Decreto Dignità: quanti posti di lavoro potrebbero essere perduti a seguito dell’entrata in vigore di questa norma? Le previsioni (allo stato non sono disponibili studi autorevoli, o comunque non sono stati resi pubblici) indicano i possibili disoccupati nell’ordine di alcune decine di migliaia, ma siamo ancora nella fase propagandistica del confronto. I più preoccupati sono i manager della grande distribuzione, impegnati a interrogarsi su come ridurre i danni che deriverebbero da un calo significativo dei volumi delle vendite.

Federdistribuzione, l’associazione della grande distribuzione organizzata sta lavorando intensamente per spiegare gli effetti negativi del provvedimento a parlamentari e amministratori locali. Il PD ha già assunto una posizione chiara e parla già di 30.000 posti di lavoro a rischio ma la Lega delle Cooperative potrebbe assumere un atteggiamento più morbido incline a trovare una soluzione per ridurre i giorni di apertura festiva in sede contrattuale. Le aperture o le chiusure domenicali egli esercizi commerciali non sono d’altra parte materie che interessano troppo le Compagnie di rating che provocano il rialzo dello spread, né una modifiche delle regole in questione non influirà certo sulla tenuta dei conti pubblici. Quindi la materia si presta benissimo per valorizzare il marketing identitario di una forza politica con sperimentazioni in corpore vili senza correre nell’immediato alcun rischio elettorale.

Per il momento le uniche vere vittime sembrano essere i dipendenti della grande distribuzione titolari di contratti a termine che, allo stato, non saranno facilmente rinnovati. Le imprese si preparano ad una intensa campagna di persuasione per convincere le forze politiche che gli effetti della chiusura domenicale saranno pesanti e tratteranno per ridimensionarne la portata. Alla fine le grandi catene commerciali faranno di necessità virtù cercando di ridurre al minimo le eccedenze di organico che si dovessero manifestare. I tempi di modifica della legge non sembrano rapidissimi.

Questo provvedimento, soprattutto se andrà in porto senza un rinvio alla trattativa tra le parti sociali, non servirà certo, come sostiene con una retorica un po’ ridicola Luigi Di Maio, a “salvare la distruzione delle famiglie italiane avviata con l’orario liberalizzato del Governo di Mario Monti”, ma solo a produrre qualche migliaio di disoccupati in più che si aggiungeranno a quelli che già si stanno materializzando in questi giorni per effetto del Decreto Dignità.

Su questa strada si va al preannunciato graduale smantellamento del Jobs Act, ripristinando la fattispecie paradossale di Cassa Integrazione per cessazione di attività ( giustamente abolita dal Governo Renzi) e riproponendo così una norma che da una parte vietava alle imprese di fallire e dall’altro offriva ai lavoratori interessati non strumenti attivi di ricollocazione ma solo forme di assistenza passiva di lungo periodo. È fin troppo evidente che il patto di Governo tra Lega e 5Stelle mostra segni vistosi di difficoltà e di graduale logoramento, ma ogni chiarimento è rinviato di pochi mesi, quando sarà discusso e approvato il bilancio pubblico con il confronto in sede di Unione Europea e in attesa degli effetti che si produrranno sui mercati internazionali. Chi vivrà vedrà.

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