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Brun (Shell): “Per il clima serve una leadership globale”

INTERVISTA A MARCO BRUN, presidente e Ceo Shell Italia che spiega come sulle questioni ambientali la rotta è tracciata e “indietro non si torna” – Tuttavia, afferma “è utopico pensare che le trasformazioni richieste possano accadere domani” – Ecco allora cosa, a suo giudizio, occorrerebbe fare e quale può essere il ruolo delle imprese

Brun (Shell): “Per il clima serve una leadership globale”

Cambiamento climatico, produzione di energia, transizione energetica dai combustibili fossili alle fonti rinnovabili: il 2019 ha acceso i riflettori sull’ambiente ma si chiude lasciando aperti tanti problemi. Esiste un unico responsabile del surriscaldamento del clima? Certamente no. Siamo disposti a cambiare stili di vita? Quali costi dovremo affrontare? E cosa possono fare le imprese? Ne abbiamo parlato con Marco Brun, presidente e Ceo di Shell Italia, filiale della Major anglo-olandese che ha accelerato la transizione verso un mix di rinnovabili e idrocarburi. Ecco cosa ci ha risposto in questa intervista a FIRSTonline.

Greta Thunberg è il personaggio dell’anno per Time. Ha contribuito a richiamare l’attenzione sul tema dei cambiamenti climatici. Eppure sappiamo come è finita la COP 25 di Madrid, con l’ennesimo nulla di fatto. Il mondo si sta avvitando sul tema ambientale?

Non direi. E anche se COP 25 ha deluso le aspettative di molti, la rotta è segnata e indietro non si torna. Oggi la questione del cambiamento climatico è parte integrante del dibattito quotidiano, e c’è una forte e chiara richiesta “dal basso” di fare qualcosa e di farlo presto”.

E’ vero, ma restano molti problemi irrisolti. Quali sono i più rilevanti secondo lei?

“Vedo due ordini di problemi. Da un lato, ci troviamo di fronte ad una questione planetaria, ma non abbiamo una struttura istituzionale globale capace di mettere fine alle discussioni, arrivare alla decisione e soprattutto renderla operativa; dall’altro, a livello di opinione pubblica il tema ambientale sembra essere percepito più come un “rischio” che come un “pericolo”, col risultato che la conoscenza della questione viene lasciata alla mediazione dagli esperti i quali, come è ovvio, hanno visioni diverse. E non c’è solo questo”.

Cos’altro?

“Anche la misurazione delle emissioni di CO2 non è poi così semplice come si potrebbe pensare. Se infatti in termini assoluti al primo posto c’è la Cina, seguita dagli Usa, a livello di emissioni pro-capite le parti si invertono. Poi ci sono le “emissioni indotte”, ossia le emissioni prodotte da un paese su altri mercati per effetto delle importazioni e della delocalizzazione. Ultimo ma non ultimo, la CO2 viene emessa da più soggetti e non soltanto dal sistema energetico. Prendiamo ad esempio il consumo di carne: se esistesse una “Repubblica delle mucche”, ovvero se tutti i bovini sul pianeta vivessero in un determinato paese, ebbene questo paese sarebbe il terzo emettitore di CO2 dopo Cina e Stati Uniti; idem per gli sprechi alimentari: uno studio della FAO ha calcolato che questi generano qualcosa come 3,3 miliardi di tonnellate equivalenti di CO2: di nuovo, se fossero concentrati in paese sarebbe subito dietro Cina e USA. Pochi spunti che però danno la misura della complessità della sfida, e di come, per vincerla, non basterà cambiare il modo di produrre energia”.

Il settore dell’energia però è chiamato più di altri ad affrontare la sfida climatica e quella, ad essa collegata, della transizione energetica. A suo avviso vi è la piena consapevolezza, nell’opinione pubblica, della portata del cambiamento? 

Il settore energetico deve fare la sua parte, ma non da solo. E’ tutta intera l’economia che va trasformata, e con essa gli stili di vita. Lo stesso European Green Deal da poco lanciato va esattamente in questa direzione, configurandosi come una strategia di sviluppo che investe tutti i settori economici. C’è poi un altro aspetto che è bene evidenziare. Il contrasto al cambiamento climatico è tecnicamente possibile ma è puramente utopico pensare che le trasformazioni richieste possano accadere domani. Nel settore energetico avremo un mix diversificato, composito ed equilibrato, dove le fonti energetiche saranno complementari, non interamente sostituibili l’una con l’altra. Rinnovabili ed elettrificazione saranno centrali, senza tuttavia dimenticare che gli idrocarburi – che insieme al carbone soddisfano l’80% del fabbisogno mondiale di energia – continueranno ad avere ancora a lungo un ruolo cruciale soprattutto nel settore dei trasporti o dell’industria pesante”. 

In particolare, i decisori politici e istituzionali si stanno muovendo con lucidità verso queste nuove sfide? E soprattutto, hanno la forza e la determinazione per realizzare scelte a volte molto impopolari?

Ci sono almeno tre aspetti che rendono non facile l’obiettivo europeo della neutralità carbonica al 2050. Il primo riguarda il fatto che a livello energetico l’Unione presenta una struttura molto diversificata, e quindi difficile da armonizzare, nei diversi Paesi. Vi sono Paesi quali la Germania, la Grecia, l’Italia, la Polonia il cui ricorso alle fonti fossili è ancora preponderante nel mix nazionale, e Paesi, quali il Regno Unito, che a maggio di quest’anno per una settimana consecutiva hanno prodotto elettricità senza fare ricorso al carbone. Il secondo aspetto riguarda le ricadute della transizione energetica sul mercato del lavoro: un conto è ricollocare i lavoratori direttamente impiegati nel settore della produzione di energia da fonti fossili, tutt’altra faccenda se pensiamo ai lavoratori la cui attività è legata indirettamente alle fonti energetiche tradizionali, come nel settore dell’industria energy intensive e dell’automotive tradizionale. 

Terzo aspetto, i costi. E’ stato stimato che lo European Green Deal richiederà 290 miliardi l’anno, il che vuol dire il 50% dell’intero Pil europeo al 2050. Da qui la domanda: fino a che punto i cittadini saranno disposti a fare sacrifici per contrastare il cambiamento climatico? Il caso dei “gilet gialli” è più che istruttivo. Come vede sono tutte questioni che ci portano al tema della leadership. 

Non c’è dubbio però che anche le imprese sono chiamate a nuove responsabilità e ad un approccio strategico che tenga maggiormente in conto i territori e il  concetto di “bene comune”. Come saranno l’impresa e l’imprenditore del futuro? 

Le aziende sono chiamate a cambiare visione: non solo in termini strategici ma anche, e soprattutto, collaborando attivamente con i propri stakeholders per promuovere progetti e inziative in grado di generare valore per le società in cui operano secondo il criterio del bene comune. E’ quanto sta accadendo in Basilicata, dove siamo presenti in entrambi i giacimenti Val d’Agri e Tempa Rossa. E’ in atto un cambio di paradigma di cui già si vedono i primi segnali. Segnali che vanno nella direzione di una nuova alleanza tra l’industria estrattiva e il territorio in grado di guardare oltre e tradursi in progetti di sviluppo sostenibili dal punto di vista economico, ambientale e sociale”.

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