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Brasile: clima da regime militare dopo l’attentato a Bolsonaro

L’accoltellamento del leader della destra durante un comizio ha gettato il Brasile ancora più nel caos e rafforzato la nostalgia del ruolo forte dei militari – Le elezioni del mese prossimo saranno una vera e propria cartina al tornasole dello stato di salute della giovane democrazia

Brasile: clima da regime militare dopo l’attentato a Bolsonaro

In Brasile non ci sono né ordem, né progresso. Il motto positivista che campeggia sulla bandiera del colosso sudamericano, che fa della stabilità e del progresso i due binari su cui dovrebbe muoversi la nazione, non è mai stato così lontano dalla realtà politica, economica e sociale del Brasile. L’accoltellamento di Jair Bolsonaro, candidato del Partito social-liberale e leader della destra alle elezioni presidenziali di ottobre, durante un comizio nello Stato di Minas Gerais – il primo episodio di questo tipo nel Brasile democratico -, ha gettato il Paese ulteriormente nel caos.

Il Brasile, dopo i sogni di gloria dei primi anni Duemila, si è rapidamente ripiegato su sé stesso. I problemi sono molteplici: scarsa crescita economica, corruzione dilagante, sommosse all’ordine del giorno – dai camionisti infuriati per il rialzo del costo della benzina a metà agosto ai disordini, ormai ciclici, di Rio de Janeiro – e, negli ultimi tempi, la questione dei migranti venezuelani, che si ammassano lungo il confine settentrionale, fuggendo dalla dittatura di Nicolás Maduro.

L’attacco a Bolsonaro è un altro, significativo vulnus per la già debole democrazia brasiliana. Attualmente, la campagna elettorale per il primo turno del 7 ottobre non avrà tra i partecipanti attivi né, appunto, Bolsonaro, ancora in ospedale (ma la sua macchina organizzativa non si fermerà), né l’ex presidente Lula. Il candidato dello storico Partido dos Trabalhadores, infatti, sta scontando una pena di 12 anni di reclusione per corruzione e riciclaggio e il suo ricorso al Tribunale federale è stato da poco respinto. Insieme, Bolsonaro e Lula rappresentano almeno la metà delle preferenze dei votanti, secondo i più recenti sondaggi. Uno scenario potenzialmente esplosivo che, stando agli sviluppi più recenti, sembra aver convinto classe dirigente ed elettori che la via d’uscita è una sola: il ritorno dei militari.

Militari in strada, militari al palazzo

Aleggia una certa nostalgia in Brasile. Una fetta consistente dell’elettorato si è già schierata con il capitano in riserva dell’Exército Brasileiro, Jair Bolsonaro. Questi, insieme al suo vice designato, il generale Antonio Hamilton Murão, incarna la saudade tutta brasiliana per quella “età dell’oro” che, tra il 1964 e il 1985, ha consegnato pieni poteri alle alte gerarchie dell’esercito. E proprio Bolsonaro si è ritrovato a difendere quei militari, come anche ad elogiare i regimi autoritari latinoamericani di Augusto Pinochet in Cile e Alberto Fujimori in Perù. Stabilità, sicurezza e crescita economica: tre parole che incarnano il motto nazionale brasiliano e che hanno contraddistinto – almeno a parole – l’operato dell’esercito al governo.

Soprattutto per quanto riguarda l’ordem. Il presidente Michel Temer, proprio in occasione dello sciopero degli autotrasportatori che per giorni ha paralizzato il Paese, ha dovuto smentire qualsiasi possibile intervento da parte dei militari, da molti ipotizzato (e – forse – auspicato) come soluzione definitiva. L’intervento non c’è stato, ma l’esercito, in alcune zone, è di fatto già al comando.

Dallo scorso febbraio, ufficialmente per contrastare il narcotraffico, sono circa 170mila i militari impiegati nello Stato di Rio de Janeiro, dove il generale Walter Braga Netto ha main libre per quanto riguarda la gestione del servizio di polizia e il contrasto alla criminalità. L’obiettivo è quello di realizzare una pacificazione dei quartieri più problematici. Il bilancio, però, è da bollettino di guerra: in poco meno di nove mesi, sono più di tremila gli omicidi, dei quali quasi novecento causati dai militari stessi.

Le conseguenze della crisi venezuelana 

I militari, però, non sono impegnati soltanto nel cuore del Paese. Qualche giorno fa, centinaia di soldati brasiliani sono stati dispiegati nello Stato di Roráima, al confine con il Venezuela. Le difficoltà politiche ed economiche di Caracas, che assumono di settimana in settimana i connotati di una vera e propria crisi umanitaria, si riverberano da tempo su tutto il continente. In particolare in Brasile: dal 2015, sono più di 50mila i cittadini venezuelani che hanno fatto richiesta di asilo politico.

La risposta di Temer, che ha inviato i militari alla frontiera, ha trovato immediatamente sponda in Bolsonaro e nei suoi sostenitori. Il candidato della destra ha più volte espresso il desiderio e la promessa di voler chiudere il confine settentrionale. Un’idea che ha raccolto all’istante il consenso di gran degli abitanti di Pacaraima, cittadina del Roráima che maggiormente è sottoposta alla pressione migratoria. E non solo: Bolsonaro ha anche proposto la creazione di campi per i rifugiati.

Il Paese di fronte alla sfida democratica

È una sorta di Segurança Nacional 2.0, che legittima la riproposizione di formule che sembravano, dopo decenni, superate. La dottrina che aveva reso “necessario” il golpe militare del 1964 e corroborato l’azione della giunta durante il ventennio di potere (ri)trova, da qualche mese a questa parte, nuova linfa vitale. L’esercito ha il dovere di garantire la stabilità in un Paese in preda al caos e sull’orlo di una crisi di nervi, di risollevare l’economia nazionale e di combattere il “nemico interno”, che di volta in volta si declina nel narcotraffico, nei politici corrotti, nei migranti, e così via.

Senza dubbio, chiunque sarà il successore di Temer, dovrà ribadire con fermezza il controllo e la supremazia del potere civile su quello militare. Anche per questo, le elezioni del prossimo mese saranno una vera e propria cartina di tornasole sullo stato di salute della giovane democrazia brasiliana.

Da Affarinternazionali.it.

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