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Borse, il rischio inflazione frena il Toro ma la partita è aperta

Il caso Usa fa scuola: la Fed non è riuscita a rassicurare i mercati e Wall Street contagia le piazze europee – Negli Usa la ripresa è data per scontata ma Yellen vede ancora l’occupazione a rischio. E i segnali sono contraddittori

Borse, il rischio inflazione frena il Toro ma la partita è aperta

A che punto è l’inflazione? Siamo di fronte ad un fenomeno temporaneo, destinato ad esaurirsi entro la fine dell’anno oppure il virus dei prezzi è già in circolo pronto a colpire la potenziale ripresa? E’ la domanda che, dopo aver diviso da settimane le opinioni delle migliori menti del pensiero economico si è imposta con violenta evidenza sui mercati Usa dopo che la Fed, adeguandosi alle scelte del Tesoro Usa, ha scelto di non intervenire per frenare le conseguenze della pioggia di liquidità che si sta riversando nelle tasche degli Americani dopo l’approvazione degli stimoli pe 1.900 miliardi di dollari. La banca centrale, in realtà, dà per scontata una forte ripresa dell’economia: nel 2021, secondo l’opinione della maggioranza dei banchieri che decidono sul livello dei tassi, il pil americano salirà del 6,5%, come non avviene dal 1984. Altri indicatori volgono al bello stabile, compresa la disoccupazione che entro la fine dell’anno tornerà al 4,5%, assorbendo i guasti provocati dalla pandemia al sistema. Non è il caso di correre già ai ripari, seguendo il consiglio di critici insospettabili, come Lawrence Summers o Olivier Blanchard, che hanno messo in guardia contro il rischio che l’improvvisa ricchezza di carta nelle tasche dei cittadini Usa si traduca in una corsa dei prezzi? I segnali in arrivo dalla società sono contraddittori.

Certo, i prezzi saliranno, ma sarà un effetto temporaneo. Poi tornerà a farsi sentire la fragilità del mercato del lavoro, replica lo staff di Janet Yellen, la “colomba” che detta le strategie di Joseph Biden, di sicuro sensibile agli squilibri del mercato del lavoro della sua California messi in luce stamane sul New York Times dalla ricerca  del Policy Lab, uno dei pensatoi vicini alla Fed di San Francisco, da cui emerge che circa l’80% dei disoccupati dello Stato è costituito da gente che va e viene da posti di lavoro precario, con contratti che durano al più un paio di settimane. Una condizione in parte tipica della California, ove è alta la percentuale dei lavoranti del cinema e del mondo dello spettacolo in genere, ma che ha ormai superato il livello di guardia. Nel corso dell’ultimo anno il 47% della forza lavoro della California si è mantenuto solo grazie agli aiuti pubblici, una percentuale che sale addirittura al 90 % nella popolazione di colore in aperto contrasto con il benessere ostentato dagli addetti dell’economia digitale.  E quale può essere, si chiede Janet Yellen, il livello di soddisfazione di un lavoratore che entra ed esce dal ciclo ogni 15 giorni?

Certo, l’America non è solo questo. A Miami camerieri e cuochi assunti dai ristoranti sono già l’8% più che nel 2019. Secondo Earnest Research, che monitora l’andamento delle carte di credito, le spese per palestre e beauty farm sono ai massimi di sempre così come sono al top le prenotazioni al 3 marzo dei soggiorni presso Airbnb o Home Away. Intanto le strutture produttive spinte al massimo stanno mettendo in crisi le strutture logistiche ed i trasporti. Non solo l’industria dell’auto carente dei chips, ma anche  Nike che ieri ha presentato dati del trimestre inferiori alle aspettative a causa dell’assenza di container con i quali portare le scarpe ed i capi di abbigliamento dalla Cina agli Stati Uniti. Nel suo terzo trimestre fiscale, la società ha registrato 10,4 miliardi di dollari di ricavi, in calo dell’1% a parità di cambio: non sono bastati i forti incrementi delle vendite in Cina e nel canale online, perché in Nord America, c’è stato un calo del 10% per i problemi di fornitura.

In questo quadro è evidente che le parole della Fed non potevano essere sufficienti a rassicurare gli investitori circa la dinamica dell’inflazione, soprattutto nel medio periodo. La risposta del mercato si è così fatta sentire: gli operatori hanno venduto nelle ultime settimane, a mano a mano in cui prendeva corpo la manovra di Biden, la bellezza di 80 miliardi di T-bond, spingendo al rialzo i rendimenti dei titoli a lungo termine e, di riflesso, le obbligazioni corporate giunte a sfiorare il 3%, un rendimento così appetibile da consigliare di uscire dai tech e puntare sui bond. E così giovedì ha prevalso la tesi che la riapertura di molte economie creerà un eccesso di domanda rispetto all’offerta in diversi settori (trasporti, turismo, tempo libero e consumi non di base), causando un aumento dei prezzi.  

Ma la Fed ha in mano carte buone per cogliere in contropiede i pessimisti: già oggi potrebbe annunciare l’estensione dell’esenzione dei Treasury dal calcolo sui coefficienti patrimoniali, un provvedimento sufficiente a bloccare le vendite di titoli da parte di banche e finanziarie. E questo spiega la ripresa di stamane. L’inflazione resta la spada di Damocle sulla testa del Toro che però sembra ancora in buona salute. Purché faccia il vaccino.

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