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Bestseller italiani dall’Unità d’Italia al Fascismo

Pubblichiamo la prima parte del saggio di Michele Giocondi in “Schermocracy. Libro o ebook” edito da goWare: si passano in rassegna i maggiori casi letterari italiani, dal punto di vista delle copie vendute, e gli autori dei bestseller, spesso imprevisti, dalla nascita del mercato editoriale italiano in poi

Bestseller italiani dall’Unità d’Italia al Fascismo

I bestseller, cioè i libri più venduti, sono in qualche maniera lo specchio più fedele dei gusti e delle preferenze di un’epoca e di un popolo. E ieri molto più di oggi, in quanto una volta, fino a non molti decenni fa, la lettura era l’unico evento culturale cui la massa, e non qualche élite culturalmente illuminata, potesse accedere, diversamente da quanto accade ai nostri tempi, nei quali i mezzi audiovisivi nella loro varietà e molteplicità svolgono un ruolo quantitativamente ancora più rilevante.

Proprio la concorrenza brutale di questi ultimi che contendono alla lettura il tempo libero delle persone ha fatto sì che la ricerca del bestseller sia oggi diventata l’ossessione di tutta l’industria del libro e dei suoi player. Un bestseller può premiare un editore o uno scrittore nello stesso modo in cui lo è un divo del cinema, una star della musica o un campione dello sport.

Buon bestseller a tutti! E soprattutto la storia insegna.

I bestseller, lo specchio di un paese

La storia di un paese non è fatta solo di vicende politiche importanti, di guerre, di paci, di trattati, di governi e via dicendo, le vicende cioè di cui parlano i libri di storia. È fatta anche di piccoli accadimenti quotidiani, che riempiono la vita della popolazione: cosa si mangia, come ci si veste, quali sono le condizioni del lavoro, come si occupa il tempo libero, come sono le case in cui si vive, e le scuole, gli ospedali e così via. Fra questi “piccoli accadimenti” un ruolo privilegiato lo svolgono le letture che effettuano le persone, cioè i libri che legge la gente comune, perché mostrano il livello sociale e culturale della popolazione. Non i grandi titoli che sono entrati a buon diritto nelle storie letterarie, non gli scrittori che si studiano a scuola, non i poeti che hanno vinto il premio Nobel, ma i libri che comprano i lettori normali e che compaiono nelle vetrine dei librai.

Parlare dei bestseller significa pertanto accostarsi alla storia di un paese da un’ottica sicuramente inusuale e insolita, ma senz’altro foriera di indicazioni utili alla conoscenza profonda di un popolo. E pertanto è dalla sua analisi che si possono trarre indicazioni illuminanti sul livello culturale medio di un determinato paese.

Ripercorriamola pertanto, pur nei limiti di spazio che ci sono consentiti, la storia dell’Italia sotto l’ottica dei bestseller, dalla sua nascita nel 1861 ad oggi, per individuare qualche aspetto che forse la storia con la “S” maiuscola, quella appunto dei grandi eventi che si studiano a scuola, non ci consente di cogliere. E vedremo alla fine di questo rapido excursus se sarà possibile ricavarne anche qualche indicazione per il futuro del libro.

Le dimensioni del mercato editoriale

Premessa irrinunciabile di qualunque analisi sul libro, e a maggior ragione sul bestseller, è la conoscenza, sia pur sommaria, dei dati riguardanti, direttamente o indirettamente il mercato librario. Senza di essi qualsiasi discorso sulla materia finisce per rimanere astratto, incompleto, privo di ogni valida argomentazione.

Diciamo pertanto che all’indomani della proclamazione del Regno d’Italia, nel 1861, la popolazione del paese contava 26.300.000 abitanti ai confini attuali. La percentuale di analfabeti, conteggiata proprio in un censimento nel 1861, era altissima: il 78% della popolazione non sapeva né leggere né scrivere. Impietoso il raffronto con i paesi europei con i quali ci confrontiamo di solito. In Germania l’analfabetismo era pari a zero, sconfitto da una lunga tradizione di scolarizzazione di massa. In Francia, Inghilterra e Olanda esso oscillava dal 20 al 30% della popolazione, percentuale cui il nostro paese sarebbe approdato solo 60-70 anni dopo.

La realtà effettiva era inoltre sicuramente peggiore di quella evidenziata dalle statistiche ufficiali per almeno due motivi. Il primo perché molti dei cosiddetti “alfabeti” ufficiali in realtà sapevano solo disegnare la propria firma, ma erano ben lontani da un effettivo possesso della lingua. Il secondo perché il dato ufficiale dell’analfabetismo, quel 78%, era la media di una realtà geografica estremamente diversificata fra il Nord e il Sud del paese. Se in Lombardia, Piemonte e Liguria il tasso di analfabetismo superava di poco il 50%, in Sardegna saliva al 90% della popolazione, in Sicilia all’89%, in Calabria, Basilicata, Campania, Puglia e Abruzzo si aggirava intorno all’86%.

Tale divario, inoltre, con il passare dei decenni sarebbe andato a crescere, anziché a ridursi, tanto che il censimento del 1911 registrava un tasso medio di analfabetismo nazionale di poco inferiore al 40% della popolazione. Ma esso era la risultanza di un 11% del Piemonte, di un 13% della Lombardia, di un 17% della Liguria, di fronte a un 70% della Calabria, a un 65% della Basilicata, a un 60% della Puglia, a un 58% di Sardegna, Sicilia e Abruzzo. Differenze che sono rimaste anche nei decenni successivi, quando nel censimento del 1981, dinanzi a un tasso nazionale di analfabetismo del 3%, si aveva un Nord attestato a un 1% della popolazione di analfabeti di fronte al 6% del Sud del paese.

Un mercato librario povero…

Il mercato editoriale veniva pertanto a collocarsi su una base di potenziali fruitori estremamente scarsa, verrebbe da dire quasi risicata, ridotta come era dall’abnorme percentuale di analfabeti. Le condizioni economiche del paese inoltre erano tali che l’acquisto di un libro rientrava fra i consumi cosiddetti di lusso, e questo riduceva ancora enormemente la possibilità di accostarsi al libro e alla lettura. Scarsi lettori, quindi, di fronte a un’industria editoriale che tuttavia non difettava né di proposte, né di offerte. Queste risultavano anzi cospicue, tali da non sfigurare affatto nel confronto con gli altri paesi europei, o quanto meno non nella misura evidenziata per il tasso di analfabetismo: in estrema sintesi, pertanto, pochi lettori, di fronte a molti libri pubblicati.

Si presentava così il mercato librario all’indomani della nascita del Regno d’Italia, e tale rimaneva nei decenni successivi, praticamente fino ad oggi, mantenendo inalterata questa sua caratteristica di fondo, contrassegnata sempre da una cronica scarsità di lettori, che continua a gravare pesantemente sulla nostra editoria e a rappresentarne il cruccio più evidente. Significativo, caso mai, il fatto che l’offerta di libri una volta risultava solo di poco inferiore ad oggi, in rapporto al numero di alfabeti. Se nel decennio 1861-1871 si pubblicarono mediamente ogni anno 3183 libri, di fronte a circa 6.000.000 di alfabeti ( il 22% della popolazione di oltre 26.000.000 di abitanti), e quindi un libro ogni 1900 alfabeti circa, nel 2013, con circa 58.000.000 di alfabeti ufficiali sono uscite oltre 60.000 opere, che però, depurate delle ristampe e degli opuscoli, non conteggiati nei rilevamenti ufficiali sino al 1967, si riducono a circa 40.000 opere, una ogni 1450 alfabeti.

…ma ricco di offerte librarie

Su questa platea di (scarsi) lettori, gli editori dell’epoca svolsero il loro lavoro con difficoltà notevoli, ma anche con una lungimiranza, un coraggio imprenditoriale e una voglia di affermarsi che fecero di loro dei protagonistidi assoluto rilievo del mondo culturale dell’epoca.

Nuovi editori si affiancarono ai vecchi, già protagonisti di imprese degne di essere ricordate, come Giuseppe Pomba e Antonio Fortunato Stella, ai quali, nell’empito della rinascita nazionale, si sarebbero affiancati nuovi volti, indiscussi protagonisti delle future vicende editoriali del nuovo stato risorgimentale, da Felice Le Monnier a Gasparo Barbera, da Salani a Emilio Treves, da Sonzogno a Angelo Sommaruga.

Il bestseller, anche se non si chiamava così, rimaneva sempre il sogno proibito, l’oggetto del desiderio, allora come ai nostri tempi, e una volta sicuramente con un affanno minore nella sua ricerca, che, allora come oggi, era spesso frutto imprevedibile e assolutamente non programmabile dell’attività editoriale, a meno che non si trattasse di autori di chiara fama con uno zoccolo duro di lettori già ben consolidato.

Qualche dato

Qualche dato ci consente di vedere con maggior precisione le dimensioni del libro di successo e della dimensione del mercato editoriale dell’epoca.

Diciamo allora che negli anni a ridosso dell’unità nazionale la tiratura media di un libro era di circa 1000 copie, spesso addirittura di poche centinaia, e talvolta ci volevano alcuni anni per esaurirle.

2000 copie venivano stampate quando l’editore sperava in un grande successo e smaltirle nell’arco di un anno era considerato un mezzo miracolo.

Libri poi che si ristampassero più volte nell’arco dei dodici mesi erano rarissimi, nei primi anni di vita del nuovo Regno. Solo in seguito le cose cambiarono e le tirature dei bestseller assunsero dimensioni molto più cospicue. Comunque sia non sono affatto numeri disprezzabili nel loro complesso e dimostrano anche come l’editoria italiana nel suo sviluppo non sia mai uscita dall’infanzia.

I bestseller del nuovo Regno: la tradizione classica

Quali furono i bestseller negli anni in cui si avviava la storia del neonato Regno d’Italia? Una grossa fetta del mercato librario dell’epoca, era occupata dai testi della nostra tradizione letteraria classica, da Dante Alighieri in poi. Testi come la Divina Commedia, l’Orlando Furioso, la Gerusalemme liberata, lo Jacopo Ortis erano dei veri e propri bestseller. E non era raro trovare persone che conoscessero a memoria interi brani di queste opere. Per non parlare poi dei Promessi sposi, che appassionarono come nessun altro libro i lettori dell’epoca, e che continuarono a farlo per molti decenni anche dopo il 1861.

L’abitudine alla lettura dei classici durò almeno fino alla Seconda guerra mondiale e oltre, quando con la scolarizzazione di massa si alterarono completamente i parametri di questo tipo di editoria, che continuò tuttavia a prosperare ancora a lungo come componente dell’editoria scolastica. Ovvia conclusione di tale annotazione può essere che l’immaginario del periodo era alimentato da testi di uno spessore culturale, etico ed estetico, oltre che sociale e politico, di altissimo livello, plasmato e forgiato da opere del calibro di quelle ricordate.

La tradizione risorgimentale

A questa florida produzione di testi classici della nostra migliore tradizione letteraria, si affiancò, sempre negli anni a ridosso dell’unità d’Italia, un altro tipo di produzione, che definiremmo risorgimentale, non perché avesse necessariamente una connotazione patriottica, anche se spesso la ebbe, ma solo per conferirle la dimensione temporale nella quale si attuò, che coincise, appunto, con i decenni del nostro Risorgimento.

Le opere principali facenti parte di questa eredità risorgimentale furono alcuni romanzi, per lo più storici, a opera di Massimo D’Azeglio, di Tommaso Grossi, di Domenico Guerrazzi, di Ignazio Cantù, di Giovanni Rosini, di Giulio Carcano, di Niccolò Tommaseo, di Antonio Bresciani, come Ettore Fieramosca, Marco Visconti, L’assedio di Firenze, Margherita Pusterla, La monaca di Monza, Angiola Maria, Fede e bellezza, L’ebreo di Verona, solo per citarne qualcuno.

A questi romanzi si potrebbero aggiungere alcuni testi poetici, che, a differenza di quanto accade oggi, conseguirono un certo successo di pubblico. In particolare fu Giuseppe Giusti a ottenere con le sue poesie un apprezzabile seguito di lettori.

Anche alcuni libelli politici, strettamente legati alle vicende “mirabili” degli anni a cavallo dell’unità d’Italia, raggiunsero buoni livelli di vendita, da poter assurgere al ruolo di bestseller, in particolare i “pamphlet” di stringente attualità di Carlo Passaglia, abate e teologo, uscito dalla Compagnia dei gesuiti per le sue posizioni liberali. Ricordiamo solo il caso de La scomunica, uscito con una tiratura assolutamente inusuale per quei tempi di 6000 copie, seguita a poche settimane di distanza da una ristampa di 4000 copie. Ma non fu, ovviamente, l’unico caso.

A cavallo fra la produzione classica e quella risorgimentale, in quanto può a buon diritto appartenere ad entrambe, si colloca il romanzo del Manzoni I promessi sposi.

E data la rilevanza dell’opera e il seguito di lettori che ebbe, non ci sembra fuori luogo sintetizzarne al massimo la vicenda editoriale, anche perché nel 1861 era ancora il principale bestseller del paese.

Il caso dei Promessi sposi

La prima uscita dei Promessi sposi si ebbe nel 1827, presso l’editore Ferrario di Milano, che ne stampò 3000 copie. Il successo fu tale, “600 copie in venti giorni”, si disse, che negli anni successivi furono stampate decine di edizioni abusive, cioè prive del permesso dell’autore e senza versargli i relativi diritti d’autore, si stima per un insieme di circa 200.000 copie, cifra per i tempi elevatissima. Contro queste Manzoni non aveva strumenti per intervenire, in quanto non era in vigore alcuna legge che proteggesse il diritto d’autore. Anche per difendersi da questo abuso di ristampe, Alessandro Manzoni predispose nel 1840 l’edizione definitiva presso Guglielmini e Redaelli, diventati in seguito Rechiedei. Usciva a dispense e si sarebbe completata nel giro di due anni. Era riccamente illustrata e con una veste grafica assai raffinata, che nonostante l’elevato e inevitabile costo complessivo, fu venduta in altre decine e decine di migliaia di copie.

Dal punto di vista imprenditoriale è noto però che si rivelò un mezzo fallimento, perché l’alto costo per realizzare l’opera non fu mai coperto e il saldo finale per il nostro grande romanziere fu assolutamente negativo. E questo avveniva anche perché nello stesso tempo altri editori continuavano a pubblicare il romanzo illegalmente, a un prezzo infinitamente più basso di quello dell’edizione “ufficiale”, sia pur senza le sue pregiate illustrazioni.

Però contro questi editori abusivi stavolta Manzoni adì le vie legali, in quanto nel 1840 era stata approvata una legge che tutelava il diritto d’autore. Inizialmente essa era stata introdotta nel Regno asburgico e nel Regno di Sardegna, ma l’anno successivo si estese a tutti gli altri staterelli d’Italia, eccetto il Regno borbonico. E pertanto nel napoletano continuarono a uscire numerose edizioni illegali, senza che l’autore avesse alcuna possibilità di opporsi.

Nelle altre regioni però non fu così, e celebre rimase la causa che Manzoni intentò all’editore franco-fiorentino Felice Le Monnier, reo di aver stampato il romanzo senza permesso e senza versargli i relativi diritti d’autore. La lunga vertenza fra autore ed editore si concluse nel 1864 con il pagamento della somma, ingente per l’epoca, di 34.000 lire, per le oltre 24.000 copie stampate illegalmente dal Le Monnier. Sembra che questa fosse la somma più alta mai intascata dal Manzoni per il suo romanzo.

La nuova produzione del Regno d’Italia

Con la nascita del nuovo regno si affaccia alla ribalta del mercato librario una nuova generazione di scrittori, in parte già attiva prima dell’unità nazionale, come Francesco Mastriani (a cui si devono oltre 100 romanzi d’appendice composti in un quarantennio, a partire dal 1852, con La cieca di Sorrento, fino al 1889 con La sepolta viva; più celebre e rinomato di tutti I misteri di Napoli del 1875), ma per lo più entrata in azione dopo il 1861.

Questa nuova generazione di scrittori si compose dei nomi di Edmondo De Amicis, Bruno Barrilli, Salvatore Farina, Paolo Mantegazza, Gerolamo Rovetta, Antonio Fogazzaro, Carolina Invernizio, Emilio Salgari, Annie Vivanti, Luciano Zuccoli. Furono loro a disegnare l’immaginario degli italiani nei decenni di fine Ottocento e primo Novecento, grazie alle loro opere uscite regolarmente per decenni. Non mancarono anche bestseller isolati, opera di autori meno fertili o quanto meno in grado di raggiungere l’olimpo delle vendite solo con un’opera o due. E fra questi ricordiamo Enrichetta Caracciolo, Antonio Stoppani, Emilio De Marchi, Michele Lessona, Carlo Collodi, Emilio Artusi, Umberto Notari, Luigi Bertelli (Vamba).

Fra questi autori vorremmo segnalare alcuni casi davvero macroscopici, che mostrano diverse tipologie di successo, o, per meglio dire, differenti casi di bestseller, perché se è vero che con questo termine si intende tutti la stessa cosa, cioè il libro di successo commerciale, è anche vero che a esso si accede con modalità assai diverse tra loro. Il primo caso da osservare è quello relativo a Edmondo de Amicis.

De Amicis e la fortuna di Cuore

La fortuna dei libri di De Amicis, usciti regolarmente per quasi un quarantennio, fu costante e sempre di alto livello. Il suo debutto come scrittore avvenne nel 1868 con La vita militare, vero bestseller dell’epoca con le sue 5000 copie esaurite in un solo mese, seguite da innumerevoli altre ristampe, per un insieme di circa 200.000 copie al momento della morte dell’autore, avvenuta nel 1908.

Questo fu il suo maggiore bestseller, dopo Cuore, ovviamente. Seguirono numerosi altri titoli, tutti baciati dalla fortuna, sia pure in misura inferiore, ma pur sempre con risultati di vendita di varie decine di migliaia di copie, specie per quanto riguarda i libri di viaggi: Spagna, Ricordi di Londra, Olanda, Marocco, Costantinopoli ecc.

Il caso di Cuore fu invece davvero eclatante. Uscito nel 1886 dopo una lunga gestazione, il libro travolse ogni precedente record di vendite. Nei mesi immediatamente successivi alla sua uscita se ne vendevano addirittura 1000 copie al giorno. All’alba del nuovo secolo il libro aveva superato le 250.000 copie, nel 1910 le 500.000, nel 1923 il milione, e da allora fu un susseguirsi di nuovi record. Molti imparavano la lingua solo per leggere Cuore, che divenne uno dei maggiori bestseller in assoluto della nostra editoria nazionale. Innumerevoli furono anche le traduzioni, ben 18 solo nei primi due mesi di vita del libro, e poi tante altre ancora.

Per il suo bestseller, De Amicis aveva concluso un contratto a percentuale con l’editore Treves. Ma sappiamo che lo aveva fatto di malavoglia, in quanto avrebbe preferito un contratto a forfait, di 4000 lire per la cessione dei diritti per 10 anni. Evidentemente non nutriva aspettative così eccelse sull’impatto del suo libro sui lettori, e poi la somma richiesta era pur sempre fra le più alte che riscuotessero gli autori del periodo. L’editore da parte sua doveva condividere più o meno le stesse aspettative sulle sorti del libro dell’autore, e preferì concludere un contratto a percentuale, il 10% sulle vendite, contratto che riteneva lo avrebbe garantito di più nel caso, che lui riteneva assai probabile, di un esito non troppo favorevole. E alle condizioni volute dall’editore fu concluso il contratto per Cuore.

Inutile sottolineare che tale contratto poi si rivelò per l’editore immensamente più oneroso dell’altro, dato che solo per i diritti di due anni Treves versò al De Amicis la somma di 40.000 lire! Ma quando i libri vanno bene, come questo, anche l’editore, invece di mangiarsi le mani, sicuramente festeggiò con l’autore ed ebbe modo di rifarsi ampiamente. Rimane comunque il dato di fondo dell’assoluta incapacità dell’autore e dell’editore, peraltro entrambi assai accorti nel gestire rispettivamente le proprie posizioni finanziarie, di prevedere l’esito del libro. Questo ci porta comunque anche a porsi la domanda se furono loro incapaci a prevedere l’esito di un libro, o se è cosa assolutamente impossibile prevedere a priori l’esito di una nuova opera. Noi opteremmo per questa seconda ipotesi.

Collodi e Pinocchio

Il record di vendite di Cuore sarebbe stato battuto solo da un libro uscito tre anni prima, Pinocchio. È questo infatti il maggior successo editoriale nella storia d’Italia, superiore a tutti gli altri, sia precedenti che successivi, e con ogni probabilità anche uno dei maggiori, se non il maggiore in assoluto, a livello mondiale.

La sua genesi fu assai complessa. Pinocchio nacque nel 1881 come novella scritta per una rivista per l’infanzia, “Il giornale per i bambini”, accompagnata da una nota significativa dell’autore per il responsabile della rivista:

Ti mando questa bambinata, fanne quel che ti pare; ma se la stampi pagamela bene per farmi venire la voglia di seguitarla.

Era stata scritta alla svelta, questa bambinata, per ricavare quattro soldi e saldare qualche debito di gioco, vizio che la magra pensione che Collodi riceveva come ex addetto alla censura teatrale, di 60 lire al mese, non gli consentiva di mantenere. Dal tono si evince anche l’assoluta incomprensione se non addirittura la sfiducia sulle sorti del suo lavoro. La novella terminava nel momento in cui il gatto e la volpe impiccavano Pinocchio a un albero.

L’accoglienza dei lettori fu però tale, che giunta all’epilogo ci fu un sollevamento di popolo per la brusca fine del burattino di legno. Così Collodi, su sollecitazione del direttore della rivista, Ferdinando Martini, riprese la sua storia e la portò stancamente a conclusione nel gennaio del 1883.

Il successo fu tale che un mese dopo uscì l’edizione in volume presso l’editore Paggi di Firenze, per un compenso, per la cessione perpetua dell’opera, sembra, di 1000 lire. Somma che definire ridicola è addirittura offensivo, se si pensa che solo in Italia, fra edizioni integrali e ridotte per bambini si parte da una stima prudenziale di 10 milioni di copie, per arrivare a tre volte tanto, e forse anche di più. E solo in Italia! Se pensiamo poi a livello planetario quale sarebbe potuto essere il guadagno complessivo dell’autore, se avesse concluso un contratto a percentuale e non a forfait, vengono le vertigini.

De Amicis in questo avrebbe potuto impartirgli una lezione memorabile, se, come abbiamo visto, anche lui non si fosse abbondantemente sbagliato nelle previsioni del suo Cuore.

Il triste caso di Salgari

Un caso più patetico, ma aggiungeremmo anche infinitamente più drammatico, fu quello di Emilio Salgari, un autore al quale non andarono che le briciole della straordinaria fortuna che creò con la sua fervida fantasia. È noto infatti che dalla sua penna uscirono un centinaio di romanzi, molti dalla fortuna straordinaria, che furono però retribuiti con una formula ancora differente, prima con la somma forfettaria di 300-350 lire per romanzo, poi con uno stipendio mensile, a saldo della composizione di tre o quattro romanzi l’anno, più alcuni racconti e la direzione di una rivista.

Fu un impegno molto gravoso che lo costringeva a ritmi di lavoro forsennati, da vero schiavo della scrittura. In cambio riceveva, appunto, uno stipendio, che con l’editore Donath di Genova fu di 4000 lire l’anno. Poi Salgari passò a Bemporad di Firenze per il doppio, 8000 lire l’anno, la cifra più alta mai percepita, ma questo avvenne solo negli ultimi anni della sua vita, e inizialmente l’editore fiorentino trattenne metà della somma per risarcire l’editore genovese del distacco: una specie di clausola rescissoria dei nostri tempi. Non era poco: abbiamo già ricordato che lo stipendio normale di un insegnante fosse di 1000 lire l’anno e quella cifra di 8000 lire annue corrispondesse a quella degli alti dirigenti statali. Ma se si pensa al grande successo dei suoi libri, occorre dire che non furono che spiccioli.

Secondo la stima del figlio Omar, Salgari nei 28 anni della sua carriera, guadagnò in tutto 87.000 lire. Nel 1963 la rivista “Quattrosoldi” stimò che solo in quell’anno di diritti d’autore a Salgari sarebbero spettati 100 milioni di lire. Ed erano lire degli anni Sessanta. E invece Salgari visse sempre in bolletta, con una famiglia onerosa sulle spalle, quattro figli, le cure per la malattia mentale della moglie e una non sempre accorta gestione del budget familiare. Tutto ciò lo condusse al suicidio ad appena 49 anni. Si uccise facendo harakiri con un kriss, come avrebbe fatto un personaggio dei suoi romanzi, non prima di aver lanciato un atto di accusa terribile nei confronti dei suoi editori: “A voi che vi siete arricchiti con la mia pelle, mantenendo me e la mia famiglia in una continua semimiseria od anche di più, chiedo solo che per compenso dei guadagni che vi ho dati pensiate ai miei funerali. Vi saluto spezzando la penna”.

Fogazzaro, D’Annunzio e Verga

Riprendendo il filo del nostro discorso, vorremmo sottolineare un altro aspetto della complessa storia dei bestseller, e cioè il fatto che in quegli anni di fine Ottocento non mancarono, fra i vari libri di successo, anche alcuni di indiscusso valore letterario. Ci riferiamo ad autori come Fogazzaro e D’Annunzio, ai quali vanno attribuite tirature di svariate decine di migliaia di copie per i loro principali bestseller, che furono rispettivamente Piccolo mondo antico e Il piacere.

Per Giovanni Verga, invece, il caso fu ancora diverso. Egli infatti arrivò al successo non grazie alle opere che lo hanno reso immortale, come I Malavoglia e Mastro don Gesualdo, in quanto, editorialmente parlando, questi due romanzi furono due fiaschi clamorosi, ma in virtù della sua prima produzione, quella pre-verista, in particolare Storia di una capinera. Fu questo romanzo, e in subordine, ma con vendite inferiori, Eva, Eros e Tigre reale, a portarlo a quel successo di vendite che poi non si sarebbe ripetuta minimamente con i due capolavori veristi.

Ma qui salta subito agli occhi un altro aspetto della variegata casistica dei bestseller: cioè che i Malavoglia e Mastro don Gesualdo, completi flop ai loro tempi, si sono dopo alcuni decenni ripresi abbondantemente e oggi vantano entrambi tirature ultra milionarie, in virtù anche delle edizioni scolastiche. Bestseller ritardati, potremmo definirli, una nuova tipologia con la quale dovremmo fare i conti più volte in futuro, per precisare meglio la complessa casistica del bestseller.

L’Artusi

Diverso, ancora una volta, è stato il caso di Pellegrino Artusi, che con La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene, uscito nel 1891, iniziò quel filone di libri sulla cucina e sull’alimentazione che oggi è predominante in ogni segmento non solo dell’editoria, ma dei mass media in generale e dell’intera vita sociale.

Artusi cominciò decisamente male a ulteriore prova della difficotà di intuire i gusti e le tendenzae del pubblico in fatto di libri e di prodotti culturali.

Ebbene, ai suoi tempi l’Artusi non trovò un editore che lo pubblicasse, che volesse rischiare il suo capitale per un libro di ricette di cucina. E allora l’autore pubblicò il suo libro a proprie spese, presso un tipografo fiorentino. poi ne curò la sapiente gestione, lo arricchì ogni volta di nuove ricette e lo seguì attentamente in ogni sua fase. In questo modo, edizione dopo edizione, il libro dell’Artusi è divenuto uno dei maggiori bestseller nazionali.

Quello dell’Artusi è uno dei primi eclatanti casi di successo din autore autopubblicato, un percorso che ha compiuto anche l’autrice le maggiore dei bestseller del nostro tempo, Le 5o sfumature di grigio.

Il caso “Notari”

Prima di concludere il periodo che va dall’unificazione del paese alla Prima guerra mondiale, vorremmo ricordare un altro caso, oggi assolutamente dimenticato, ma che merita di essere riportato, per la bizzarria con cui si impose all’attenzione dei lettori: quello di Umberto Notari.

La storia iniziò in treno, allorché un buon sacerdote si mise ad ascoltare le lamentele di un bravo giovane che non riusciva a trovare un editore per un suo libro. Il sacerdote si dette allora da fare e alla fine gli trovò un editore. Il libro, dal titolo Quelle signore, uscì così nel 1904 in 3000 copie e nel più completo anonimato. Dopo dieci giorni però venne ritirato dalla circolazione per una denuncia di oltraggio al pudore, in quanto vi si descriveva la vita delle prostitute, tramite le vicende di una di loro, di nome Marchetta. Se il buon sacerdote avesse saputo quale era il libro per il quale si stava dando da fare avrebbe sicuramente cambiato discorso e forse anche treno.

Ma, si sa, è un’opera buona anche aiutare un giovane a farsi strada nel difficile mondo dell’editoria! Il processo per oltraggio al pudore, celebrato due anni dopo, si concluse con l’assoluzione del Notari. L’editore allora ripubblicò l’opera, con il resoconto del processo, e qui scattò una seconda denuncia, in quanto il processo era stato celebrato a porte chiuse, e come tale non poteva essere divulgato.

A questo punto scoppiò il vero “caso Notari”, in quanto si ritenne che questa seconda denuncia nascondesse il tentativo di limitare la libertà di stampa, e quel libro divenne l’emblema di una battaglia fra conservatori e progressisti, fra clericali e anticlericali, fra forze della reazione e dell’emancipazione. In tal modo il libro ottenne una visibilità e una pubblicità straordinarie, che ne decretarono un successo spettacolare, fatto di centinaia di migliaia di copie. A questo primo romanzo ne seguirono poi altri, che raggiunsero risultati di vendita di tutto rispetto.

In seguito Notari passò al ruolo di editore, fondando giornali e case editrici, ma continuò, durante il fascismo, anche a comporre volumi di divulgazione socio-economica, che ebbero sempre un loro pubblico di fedeli lettori.

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