Siamo alla fine del viaggio. Partiti da una riflessione sull’attuale crisi, abbiamo cercato di spiegarla prima di tutto a noi stessi, e di descriverla in maniera semplice e fuori dagli schemi. Restano dubbi, temi da approfondire, problemi insoluti. Nella grande incertezza manteniamo un punto fermo: la consapevolezza che la catastrofe odierna non sia solo finanziaria, economica o politica, ma soprattut to culturale. Il pendolo ideologico che per lungo tempo ha oscillato fra destra e sinistra, generando gli eccessi del mercato autoregolato e la bancarotta degli Stati, si è fermato e non ha senso farlo ripartire. Servirebbero idee nuove. Alla ricerca del paradigma perduto, abbiamo osservato il mondo in cui viviamo trovando economie e società divise, lacerate da profonde disuguaglianze all’interno dei paesi, fra paesi, fra generazioni. La globalizzazione ha migliorato il tenore di vita nei paesi emergenti, ma ha creato nei paesi avanzati nuove fasce deboli che ora rischiano una povertà di ritorno. La forbice dei redditi si è allargata anche a causa di rendite e privilegi che élites si tramandano di padre in figlio, ostacolando mobilità sociale e crescita economica . Abbiamo accumulato troppo «colesterolo cattivo», troppa disuguaglianza, troppe ingiustizie e tensioni su una linea di faglia che minaccia la tenuta sociale anche in democrazie consolidate.
Come dice Tony Judt, il mondo è malato, ma non abbiamo ancora scoperto come curarlo. Anzi, corriamo il rischio che le terapie tradizionali non funzionino o si rivelino addirittura controproducenti. Alcuni sostengo no che per uscire dalla crisi serva crescere ancora e più velocemente di prima, ma nel libro abbiamo mostrato che sono proprio il mercato autoregolato e gli incentivi prevalenti nel sistema capitalistico due delle cause prin cipali della crisi. Altri confidano nell’intervento dello Stato e della politica, invocando nuove tasse, aumenti della spesa pubblica e nuove leggi per ridistribuire ri sorse a favore dei più svantaggiati. Intento nobile, ma ormai abbiamo capito che fallimenti pubblici e privati vanno a braccetto, così come è illusorio pensare che problemi globali possano essere affrontati e risolti da una politica che è – e rimane – soprattutto locale. L’eco nomia globale non ha un suo elettorato ed è per questo che continuiamo a prendere a calci la lattina per la stra da, rimandando al domani i nostri problemi più seri.
A questo punto del viaggio dentro la crisi ci siamo domandati come si poteva affrontare questa impasse. Non avrebbe senso elencare nuovamente le proposte e sottoporle a nuovi esami. Riteniamo utile piuttosto, avvicinandoci alla conclusione, indicare il filo rosso che le accomuna: quello di un’economia giusta, a forte intensità morale, basata su istituzioni economiche che puntino a una crescita senza disuguaglianze eccessive e che ricompongano quella dicotomia fra sfera economi ca e politica del progresso sociale che ha causato la catastrofe. Questo è il senso di crescere insieme, sforzarsi di rinsaldare quel vincolo umano essenziale di giustizia che l ‘economia ha perduto.
Ma quali chances di successo ha oggi l’economia giusta? E pensabile che avvenga un salto culturale che metta da parte la convenienza economica per affermare sentimenti morali di empatia, solidarietà e giustizia? È ben chiaro che le proposte di questo libro contengo no dosi elevate di etica, idealismo e utopia. Vediamo attorno a noi tutto il contrario, come del resto è com prensibile nel mezzo di una crisi che spaventa e rende miopi ed egoisti, incapaci di guardare oltre la curva di un presente angoscioso.
Ma qualcosa di nuovo cova sotto la cenere. Viacom, il conglomerato globale dei media, ha da poco pubblicato una ricerca dal titolo The New Normal: An Unprecedented Look at Millennials Worldwide. Lo studio riporta i risultati di un’analisi su scala globale dei comportamen ti, dei valori e delle aspirazioni e prospettive di giovani che sono diventati maggiorenni nel nuovo millennio. Le loro risposte dipingono una generazione consapevole delle difficoltà del momento, ma ottimista sul futuro e sulle proprie possibilità di cambiare il mondo. Orgo gliosi delle proprie radici, ma tolleranti e aperti verso qualunque tipo di diversità, questi giovani si sentono parte di una comunità globale di cui rivendicano la cit tadinanza. Riformatori non rivoluzionari, affrontano i problemi economici e sociali con pragmatismo e senza ideologie. Preferiscono il “noi” all'”io”, quello che è giusto a quello che conviene. Sono tendenze nuove, che segnano una forte discontinuità generazionale. È sicuramente troppo presto per dire se questi giovani saranno gli agenti del cambio di paradigma che auspichiamo, eppure i primi segnali so no incoraggianti. A loro affidiamo questo messaggio.
Erika è una miltennial italiana, studente Erasmus di design a Lisbona. Ci manda le sue foto da un paese de vastato dalla crisi. Alcune, dure e angosciose, mostrano macchie di sangue sul selciato dopo uno scontro con la polizia. In altre, bambini fraternizzano con i poliziotti nelle strade. Una ci colpisce: in primo piano la maschera beffarda di carnevale di uno studente, in secondo piano la polizia schierata, sullo sfondo un bellissimo cielo rosa lusitano. “Questi siamo noi che guardiamo avanti – commenta Erika -, oltre le barriere che separano giovani e vec chi, uniti in uno sforzo comune, con gli occhi rivolti a un tramonto che sta sopra ad ogni differenza culturale, politica, economica e sociale”.