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Bcc tra mergermania e modello di riforma della Banca d’Italia

Tra le banche di credito cooperativo (Bcc) si sta diffondendo la mergermania ma spesso senza chiari piani industriali e strategici – Un punto di riferimento per la riforma delle Bcc arriva però da Bankitalia che ha consigliato il gruppo cooperativo paritetico basato sulla devoluzione ad una holding spa la funzione di indirizzo e controllo delle Bcc aderenti

Bcc tra mergermania e modello di riforma della Banca d’Italia

In un articolo precedente (Firstonline del 14 ottobre) abbiamo deciso di inaugurare,ovviamente non senza un pizzico di autoironia, un nuovo genere letterario, prendendo spunto dai poeti frammentari greci, quelli dei cui versi si sono ritrovate tracce su qualche pezzo di coccio. Ciò nella convinzione che per descrivere e commentare quello che accade nel nostro sistema bancario al tempo del nuovo quadro europeo di vigilanza possano essere più efficaci singoli flash, frammenti di discussione appunto, piuttosto che complicate rappresentazioni di sintesi. Intenderemmo, quindi, continuare con questa metafora, presentando altri frammenti,numerati in stretta sequenza coi precedenti, scusandoci per quale inevitabile ripetizione. Per il momento, il tema più importante in questo momento continua ad essere la riforma del banking cooperativo e le sue più recenti evoluzioni. E di questo seguitiamo a parlare.

Frammento 4 – Fondetevi! Ma ricordatevi che c’è consolidamento e consolidamento

Per molti anni abbiamo sostenuto sia presso banche sia presso la vigilanza che i consolidamenti bancari fossero un percorso per rafforzare il sistema del credito nel suo complesso e quello cooperativo in particolare. Non eravamo gli unici a esserne convinti,ma visti gli esiti fino a poco tempo fa, non era certamente un pensiero condiviso. È cambiato il mondo! Oggi, non si parla d’altro. E, qualcosa effettivamente si muove in specie tra le BCC. In qualche territorio si uniscono banche che prima si guardavano in cagnesco, si fanno fusioni a tre, addirittura a quattro, qualche banca un po’ più grande,ispirata da improvviso altruismo, incorpora (o inghiotte?) a raffica una, due, tre banche con criticità non secondarie, tanto da sembrare il fatebenefratelli.Nascono basi sociali da 15/20.000 soci, di cui nulla si sa dell’effettivo grado di futura coesione.

Si fanno anche soci in territori discontinui ai propri per aprirvi sedi secondarie ed espandere la competenza non più a macchia d’olio, ma a macchia di leopardo. Un fermento, una merger mania in funzione del gruppo bancario cooperativo promosso dalla riforma a venire o per prendere le distanze da esso, affermando insindacabili diritti all’autonomia (cfr. anche successivo frammento)? Ancora non è dato sapere, ma un fatto è certo. Non sembra che finora ci si impegni più di tanto a spiegare ai soci (informati solo da rivelazioni di stampa) quale sia il piano industriale sottostante a dette aggregazioni, quali i calcoli di sostenibilità dei progetti e i benefici attesi a medio/lungo termine da un banking di maggiori dimensioni, come verranno riassorbiti gli esuberi di personale post fusione, ridottigli altri costi di struttura, a partire dalla tecnologia, ampliata l’offerta di servizi, riallineati i valori degli asset creditizi.

Elementi oggettivi che al tempo dell’azzeramento dello spread tra impieghi e raccolta diventano elementi costitutivi di sopravvivenza bancaria. Priva di questi caratteri, la tendenza in atto si spiega poco, quando proprio il movimento bancario cooperativo, con grande sforzo non ancora andato a compimento, si propone la creazione di un gruppo, fatto di regole nuove e prospettive industriali più robuste e competitive. Si può affermare che se le singole componenti saranno più forti, lo sarà anche il gruppo paritetico. Ma ciò va dimostrato e non assunto per fede. Insomma, il gregge che va in ordine sparso, non è proprio un gregge e pecore più grandi non è detto che siano anche pecore in grado di dare più latte e più lana ai propri territori.

In sintesi, non vorremmo vedere in certe scelte di “dimensionismo”, diventate improvvisamente di moda, una specie di difesa da ultima spiaggia di un concetto di autonomia non più sostenibile. Rifacendosi a un noto libro di fantascienza, bisognerebbe domandarsi quale pecora sogni veramente il socio cooperativo. È la stessa di chi si mette baldanzosamente alla testa di queste operazioni, che sembrano talvolta fatte per ambizione personale piuttosto che per chiaro disegno strategico? Staremo a vedere se nasceranno organismi più forti o nuove debolezze.

Frammento 5 – Banca d’Italia si pronuncia ufficialmente sulla Riforma delle BCC

L’intervento di pochi giorni fa in Senato del Capo della Vigilanza, muovendo, come in molte altre occasioni, dalla indifferibile esigenza di porre rimedio alle criticità strutturali del sistema bancario cooperativo, ha ufficialmente consacrato la posizione della Banca d’Italia, pronunciandosi a favore di una riforma incentrata sul cosiddetto Gruppo Cooperativo Paritetico. Tale soluzione è basata sulla devoluzione ad una Holding, società per azioni capogruppo, di prerogative quali indirizzo, coordinamento e controllo delle BCC aderenti e sulla costruzione di una rete di garanzie incrociate, per rafforzare, grazie al minore assorbimento di capitale, il grado di resistenza al rischio del sistema. Completa il quadro la possibilità di attingere, via holding medesima, risorse aggiuntive dal mercato.

È in sintesi un modello di tipo assicurativo, dove fa premio il numero degli aderenti e nel quale le BCC più forti, si impegnano, in nome della solidarietà cooperativa sancita da un patto di coesione, a sostenere quelle più fragili, che dal canto loro sono chiamate a rinunciare a livelli maggiori di autonomia. Fin qui, il modello ha un suo fondamento. Qualche dubbio sorge quando la stessa Vigilanza sostiene che possano accedere a questo schema più gruppi, in concorrenza tra di loro. La complessità di equilibrare più forze in tensione potrebbe far nascere gruppi virtuosi da una parte e gruppi di banche deboli dall’altra e non quel mix ottimale, che viene semplicemente auspicato, dove si mediano differenze positive e negative.

In questa fase, più che la concorrenza è necessaria la stabilità per il rilancio del sistema e quindi la maggiore robustezza possibile da parte della nuova configurazione. Le risorse non sono tra l’altro illimitate e ogni dispersione potrebbe vanificare l’obiettivo di fondo. Se dovessero prevalere soluzioni non unitarie, il capitale minimo per costituire un gruppo dovrebbe essere individuato dalla vigilanza ad un livello di effettiva selettività, per scoraggiare troppo facili auto-proposizioni. Non dovrebbe, nella pratica, essere molto diverso da quello del gruppo bancario Iccrea che è banca a rischio sistemico di livello europeo, per assicurare il livellamento del campo di gioco ed evitare che l’intero apparato del credito cooperativo si indebolisca per effetto di una competizione tra componenti,diverse anche nell’assoggettamento alla regolamentazione.

Circa le opzioni di uscita dal Gruppo paritetico, sembra poi limitativo riconfermare solo quelle attualmente previste ex art. 36 del TUB (assunzione di veste di popolare,trasformazione in spa, e solo per ragioni di stabilità), quando il nostro ordinamento civilistico prevede la possibilità di articolare le attività cooperative anche tramite lo scorporo e la costituzione di società per azioni, sotto il controllo di una società cooperativa. E ciò, senza pregiudizio per gli elementi fondanti della mutualità prevalente e della continuità cooperativa, con il titolo a conservare le riserve indivisibili fino a quel momento accumulate. Siamo anche dell’avviso che vadano allontanate ipotesi di tassazione,finalizzate al loro preteso affrancamento, come ogni tanto si sente dire, dato che ciò rappresenterebbe, a nostro avviso, un’insidia ai principi cardine della cooperazione italiana. E non crediamo che nessuno, a cominciare dalla politica, voglia tentare questa strada.

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