Condividi

Anglicismi: va fuori d’Italia, linguaggio straniero! Nel duello tra patrioti e esterofili la grande bellezza del parlar chiaro

Le parole straniere sono belle o brutte? L’uso di parole inglesi nel lessico quotidiano ha raggiunto livelli anche comici. Ma i giudizi estetici sulle lingue hanno effetti altrettanto fuorvianti

Anglicismi: va fuori d’Italia, linguaggio straniero! Nel duello tra patrioti e esterofili la grande bellezza del parlar chiaro

Nello spazio domenicale di goWare su FIRSTonline ospitiamo oggi alcuni contributi di Daniele Vitali sulle questioni della lingua e del suo uso nei vari ambiti comunicativi del nostro paese. Daniele Vitali è un glottologo di vaglia, conoscitore di molte lingue e studioso di dialettologia.

Iniziano con questo primo contributo dedicato al dibattito sull’utilizzo di termini della lingua inglese anche nel linguaggio politico e pubblico.

Cambia il governo e cambia il linguaggio

“Va’ fuori d’Italia prodotto stranier, va’ fuori d’Italia mai più non ritornar!”, recitava un’allegra marcetta dei tempi autarchici ancora ascoltabile su www.youtube.com/watch?v=guO8oMtn5PY .

In Italia è cambiato il governo, e si nota anche qualche accenno di cambiamento nel linguaggio. Il fenomeno non è nuovo: già Berlusconi si era divertito a rivoluzionare i nomi dei ministeri, istituendo il “Welfare” e la “Devolution” e ribattezzando la Sanità e la Pubblica Istruzione in “Salute” e “Istruzione”. 

Un prudente tentativo di riforma lo aveva accennato anche Mario Draghi quando, assunta la guida del governo nazionale dopo una lunga carriera alla BCE in cui parlava inglese da mane a sera, si accorse che nel dibattito pubblico del nostro paese non vige più l’italiano, ma uno strano linguaggio somigliante a un pidgin papuaso: “Perché usiamo tutti questi termini inglesi?”, aveva chiesto perplesso ai collaboratori, e poi aveva deciso di chiamare il greenpass “certificazione verde”.

C’è però una novità rispetto alle esperienze precedenti, ossia che nell’antipatia dei novelli ministri meloniani per gli anglicismi dovremmo leggere, pare, l’intenzione programmatica di difendere la lingua della “Nazione”. Così si è espresso il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano in una recente intervista: “Credo che un certo abuso dei termini anglofoni appartenga a un certo snobismo, molto radical chic”. 

Queste affermazioni hanno sollevato un diffuso sghignazzo sulle reti sociali, data l’origine non propriamente italica dei termini usati da Gennaro (il quale fra l’altro ignora che “anglofono” significa “che parla inglese” e non “che viene dall’inglese”, e dunque è più adatto alle persone che ai vocaboli). 

Intanto nel salotto di Lilli Gruber…

La questione non pare del tutto irrilevante se è stata poi affrontata anche nel più raffinato dei salotti televisivi, quello di Lilli Gruber. La quale, chiedendo il parere dei suoi ospiti, ha sollevato un ronzante vespaio.

Mentre la giornalista del Sole 24 Ore Lina Palmerini ha spiritosamente commentato che “underdog però l’ha detto Giorgia Meloni”, gli altri due invitati si sono lanciati nella mischia a testa bassa: 

Tomaso Montanari, rettore e critico d’arte, nonché del potere e dell’universo mondo, ha stigmatizzato quest’idea di “autarchia linguistica”, mentre il giornalista di destra Alessandro Giuli, da poco nominato dal governo amico direttore della Fondazione MAXXI, l’ha difesa affermando che “è meglio usare le nostre belle parole italiane, anziché parole straniere più brutte”.

A prima vista entrambi i contendenti sembravano avere parecchie frecce al loro arco, ma si trattava in verità di quello che potremmo chiamare “effetto Wikipedia”, la nota enciclopedia in rete il cui utente crede di avere accesso a illimitato sapere gratuito finché cerca cose di cui ignora i fondamentali, mentre si mette spesso le mani nei capelli quando consulta un lemma su un argomento di cui abbia una qualche competenza. 

Allo stesso modo, il titanico scontro Montanari-Giuli solleva un insidioso sospetto in chi s’interessa di politica linguistica: ma se due persone intelligenti parlano in questi termini del linguaggio, cosa pensare di quel che dicono su temi di cui il grande pubblico non sa nulla e, dunque, la sua fonte di conoscenza sarebbero proprio loro, un professionista dell’insegnamento e uno dell’informazione?

Le parole straniere sono belle o brutte?

Cominciamo da Giuli. Poiché oggigiorno i neologismi di origine straniera vengono quasi solo dall’inglese, in pratica il nostro ha affermato che l’inglese è brutto. Il che sarebbe, a dire il vero, l’esatto contrario di quel che pensa la maggioranza schiacciante della popolazione mondiale, anche se l’assunto è stato pronunciato come se fosse una questione di senso comune. 

È abbastanza noto, infatti, che ad ogni lingua dominante nella storia sono state attribuite delle qualità che dovrebbero descriverne i vantaggi, e invece servono a giustificarne la posizione egemone, acquisita in tutt’altro modo: dell’inglese si dice di solito che è “flessibile”, “sintetico”, “pratico”, “facile” o “chiaro”, come se il suo ruolo attuale di lingua degli scambi commerciali fosse frutto di un referendum in cui è stato preferito al lituano o al quechua per le sue qualità immanenti e per la sua bellezza, anziché per il fatto di avere alle spalle un arcipelago di Stati fra i più ricchi e potenti del mondo. 

Quando la lingua dominante era il francese, si diceva che era “logico” e che “strutturava il pensiero”, e analogamente certe vetuste maestre di scuola definivano il latino “la palestra del cervello”; intanto, il tedesco veniva ammirato in quanto lingua della tecnica, della chimica e della filosofia, e nel blocco orientale il russo era “la lingua della comunicazione internazionale e dell’amicizia fra i popoli” (come cambiano le cose). 

Fra i tedeschi che amano l’italiano ho sentito dire tante volte che si tratterebbe di una lingua “musicale” e “adatta per cantare”, il che mi ha sempre lasciato perplesso, dal momento che Mozart, sempre invocato come esempio di “straniero” che musicava opere in italiano, ne ha fatte varie anche in tedesco.

Nel caso degli elogi all’italiano pronunciati da italiani, certi aggettivi melomaniaci sono un po’ un nostalgico richiamo al lontano periodo rinascimentale e un po’ rigurgiti di dubbio retrogusto mandolinistico e folklorico ma, visto che gran parte della popolazione sotto sotto si vergogna di non saper parlare l’inglese, lingua delle persone istruite nel XXI secolo, è chiaro che si tratta comunque di una compensazione del solito senso d’inferiorità. 

I giudizi estetici sulle lingue

Prima del populismo eravamo abituati a credere che gli italiani non fossero nazionalisti dato che, dopo la Seconda guerra mondiale, hanno sempre usato poco la bandiera e non hanno mai memorizzato lo strampalato testo dell’inno di Mameli, in realtà però c’è un nazionalismo d’accatto, di rimessa, di autodifesa, fortissimo: il nostro caffè è il migliore del mondo, la dieta mediterranea la più sana, i nostri musei i più belli, la Gioconda ce l’hanno rubata i malvagi francesi che, come tutti sanno, ignorano l’uso del bidè, ma quant’è buono il nostro gelato, ecc. ecc. 

Tutto questo perché in fondo sappiamo benissimo che “il nostro gelato”, buono quanto volete, non può competere con la parità di genere dei paesi scandinavi, con lo Stato sociale della Germania, con la forza che hanno le istituzioni in Francia, e così via (per tacere del senso d’inferiorità verso gli USA e l’Inghilterra, che non si taglia col coltello per il solo fatto che ci vuole la motosega).

I giudizi estetici sulle lingue, insomma, lasciano il tempo che trovano: non solo sono personali, ma spesso anche “eteronomi”, ossia, in estrema sintesi, ideologici. Come s’è detto, se la maggioranza della popolazione mondiale studia l’inglese anche a spese proprie non è perché vuole visitare Buckingham Palace o la Statua della Libertà, ma perché vuol trovare lavoro e perché senza si sente inferiore (lo stesso effetto che faceva l’italiano negli anni Cinquanta ai dialettofoni puntati con l’indice). 

D’altro canto, per quanti si vogliono “patrioti”, è la loro la lingua “bella” per eccellenza e dunque le parole straniere, anche se inglesi, sono “brutte” d’ufficio, non si sa in base a quale scala estetica, elaborata da quale comitato paritetico. È di questo che è convinto il buon Gennaro, e non trova di meglio per dirlo che usare i termini “snob” e “radical chic” quando avrebbe potuto dire “arrogante”, “presuntuoso” o “arrampicatore sociale chiuso in una torre d’avorio” (qui mi fermo, perché non vorrei incoraggiare il ministro della Cultura nella sua crociata contro le persone colte).

I vocaboli del Ventennio

Immerso com’è in quotidiani studi, Montanari avrebbe dovuto essere un po’ più preparato alla tenzone rispetto al rivale Giuli, e invece nel suo intervento ha rotto cristallerie di ogni ordine e grado: ha tessuto le lodi dell’apertura, unica cosa che può rendere viva una lingua, e ha stigmatizzato la politica del fascismo contraria alle parole straniere, che ha cercato di ridicolizzare sottolineandone gli aspetti più infelici, come “coda di gallo” per sostituire “cocktail”.

Forse il nostro non sa che il purismo fascista, comunque lo si voglia giudicare, non ha prodotto solo la campagna per il Voi e la “coda di gallo”, ma anche termini tuttora usati, come ad esempio “bagnasciuga” (senza dimenticare “pennivendoli”, riesumato dai grillini per intimidire i giornalisti poco deferenti). 

Altri vocaboli del Ventennio non sono riusciti a sostituire le corrispondenti parole straniere, ma si sono affiancati a queste come sinonimi di secondario utilizzo: tutti diciamo “film” e “garage” ma, se lo abbiamo già detto troppe volte, possiamo anche usare “pellicola” e “autorimessa” (del primo ho esempi recenti). 

Inoltre, ci sono vari termini adottati in epoca fascista che hanno sostituito completamente forestierismi prima di uso generalizzato, come “autista” al posto di “chauffeur” e “calcio” per “football”. In questi ultimi casi non si tratta delle estemporanee trovate di qualche burocrate in camicia nera, ma di proposte di persone competenti, come il linguista Bruno Migliorini, il quale osservò che “autista” e “regista”, pur se ottenuti tramite un suffisso greco, avevano aspetto perfettamente italiano dal momento che lo stesso suffisso era ed è ampiamente usato nella nostra lingua. 

Anche “calcio” invece di “football” fa riferimento a una tradizione precisa: si chiamava calcio un vecchio gioco fiorentino con regole simili, anche se non uguali, a quelle del moderno sport in cui 11 atleti in mutande tirano per 90 minuti calci a un pallone mentre il resto della Nazione segue l’evento a casa, sempre rigorosamente in mutande.

Che non sia il caso di ricominciare a dire “coda di gallo” e “panciafichisti” (o “pennivendoli”) penso che siamo tutti d’accordo, ma si spera che lo siamo anche a non proibire “calcio” e “autista” per tornare a dire “football” e “chauffeur” al solo scopo di sentirci più aperti e internazionali. 

I prestiti mal spesi

Forse si potrebbe anche azzardare che l’italiano, con le sue parole che in genere finiscono per vocale, fatica ad accogliere prestiti inglesi e francesi con le loro vocali ineffabili e le loro uscite in consonante: non si sa come pronunciarli, tanto che si sentono dei veri e propri orrori (come /’riport/ per report, che sarebbe in realtà /ɻɪ’po:t/ nel Regno Unito e /ɹɪ’poɹt/ negli USA), e non si sa come pluralizzarli (ci sarebbe la regola di tenerle sempre in forma singolare, come si fa con “i bar” o “gli yacht”, ma poi tutti dicono “un murales” e “una telenovelas” perché lo spagnolo è bello con le -s, e la regola va a farsi benedire). Tutto questo era gestibile finché ci si limitava a parlare di bar e di yacht, ma oggi i risultati si sono fatti un po’ criptici. 

Un paio di esempi dal sito https://utixo.net/it, che seguo entusiasticamente da anni e non mi delude mai: “Il backup è estremamente importante per qualsiasi web agency, Utixo è l’unico provider ad avere backup giornalieri e anche mensili con restore ultrarapido”. “Non solo web site hosting ma un vero e proprio ambiente di servizi integrati come ad esempio l’email marketing”.

Aggiungo, da una loro circolare dell’anno scorso: “È importante affidare i propri servizi ad un’azienda solida e committata allo sviluppo e al supporto del prodotto, che abbia una roadmap e garantisca assistenza e continuità”.

Come dar torto a sì limpida prosa?

La grande bellezza del parlar chiaro

Fatte queste premesse, possiamo forse essere d’accordo anche sul fatto che il tentare di dare un nome italiano alle cose nuove non è necessariamente l’imposizione di un regime liberticida, come non lo è il mantenere un termine vecchio per i concetti già esistenti: ad esempio l’equivalente italiano di report, per quanto insipido possa parere agli scrittori committati, è “rapporto”. 

Piuttosto, proporre delle parole nuove ben formate può essere un’operazione ugualitaria e democratica, in quanto in controtendenza rispetto alla formazione di un latinorum dei tempi moderni come quello sopra citato. Di più: può essere un circolo virtuoso che si crea a livello comunicativo, possibilmente con l’aiuto di persone competenti.

Anni fa l’Accademia della Crusca propose una serie di parole nuove per dare al discorso quotidiano un aspetto più coerente: fra queste c’era l’idea di tradurre marketing con “vendistica”, con un termine cioè composto di morfemi italiani, evocativo e trasparente: sentii la notizia su RAI3, e non potei fare a meno di notare che la giovane inviata, fresca di chissà quali lauree in filologia e lessicografia, derideva l’Accademia, trattandola come una congrega di puristi ignari del mondo moderno e delle sue necessità comunicative. 

Certo, il nome seicentesco dell’istituzione può prestare il fianco alle battute ma, se quell’inviata e i suoi colleghi riflettessero un po’ sul fatto che forse al pubblico piacerebbe sentir parlare più spesso delle proposte della Crusca anziché sentire risatine sarcastiche, magari il dibattito sulla lingua in Italia sarebbe meno povero. Un ruolo poi spetterebbe anche ai politici, se da Bossi e Di Pietro in poi non fossero in grave difficoltà nel duro cimento di coniugare i verbi. 

Qualche esempio

Facciamo un esempio. I titoli di coda del cinema italiano terminano sempre con “Questo film è stato reso possibile dalle norme sul tax credit”. Come mai uno strumento legislativo pensato per promuovere il cinema, e dunque la cultura, dell’Italia, ha un nome che fa pensare a una normativa vigente nelle Isole Cayman? 

Perché i legislatori, scrivendo la legge sul tax credit, hanno espresso il concetto in inglese, poi la catena comunicativa prevede che i giornalisti riprendano il termine fino a che questo, ormai sulla bocca di tutti, entra nei dizionari dell’italiano. 

A quel punto proporre di chiamare il tax credit in un altro modo significa peccare contro la “lingua aperta e viva” di Montanari. Con buona pace del fatto che le lingue dallo stato di salute impeccabile, come l’inglese, assumeranno certo molte parole straniere per designare specialità delle cucine esotiche, ma poi chiamano le più avanzate novità tecnologiche con elementi del proprio lessico fondamentale: il “contactless” che a noi sembra un mezzo di pagamento avveniristico e ipertecnologico è così chiamato perché contact + less, ossia “senza contatto”. 

Zero bisogno di inventarsi un nome pseudotecnico, sono due parole del linguaggio quotidiano, mentre il nostro “contactless” suona arcispecialistico. Durante la pandemia sentivo Ilaria Capua dire e ripetere che il virus si trasmette per via aerea attraverso i “dropplez”, ossia quelle che in italiano fino a quel momento erano sempre state chiamate “goccioline”. Peccato che in inglese droplets significhi proprio quello: goccioline. Un altro termine della vita quotidiana di qualunque anglofono che viene spacciato al pubblico italiano come se fosse un irrinunciabile termine tecnico.

Immaginiamo ora che, ai tempi delle restrizioni anti-covid, anziché del “lockdown” i politici e i giornalisti avessero parlato di “confinamento”, come si è fatto in Spagna con el confinamiento e in Francia con le confinement: si può star certi che anche in Italia, proprio come in quei due paesi, della parola lockdown non avrebbe sentito il bisogno nessuno (a partire da quelli che lo scrivono lookdown, per restare in tema di lingua democratica vs elitaria). 

Una lingua viva

Non si tratta, dunque, di dettare dall’alto come si deve parlare, ma di esprimersi in un modo comprensibile a tutti utilizzando il lessico esistente o, se necessario, coniando neologismi trasparenti come “autista” e “regista”. Si tratta cioè di un’operazione di “cultura linguistica”, o se vogliamo di “rigore espressivo”, in definitiva di parlar chiaro e con un minimo di buon gusto. Poi qualche proposta nuova si radicherebbe, altre no e dunque le odiate (da Giuli) e amate (da Montanari) parole straniere in vari casi entrerebbero lo stesso nella nostra lingua.

Ma cerchiamo di renderci conto che, per chiunque si parteggi politicamente, una lingua che non sa dare un nome alle cose nuove e deve ricorrere a uno pseudo-termine tecnico inglese che in realtà è una parola di tutti i giorni non è una lingua viva, allegramente scoppiettante e pronta allo scambio internazionale: è una lingua malconcia, a cui i suoi parlanti non vogliono poi tutto quel bene.

Chi è Daniele Vitali

Daniele Vitali, bolognese, è stato per anni traduttore alla Commissione europea. Ha al suo attivo vari lavori di glottologia su lingue e dialetti, fra cui “Ritratti linguistici: il romeno” (Inter@lia 2002), “Parlate italo-lussemburghese? Appunti sulla lingua degli italiani di Lussemburgo” (Inter@lia 2009), “Pronuncia russa per italiani” (con Luciano Canepari, Aracne 2013), nonché il grande “Dizionario Bolognese-Italiano Italiano-Bolognese” (Pendragon 2007 e 2009, con Luigi Lepri), “Dialetti emiliani e dialetti toscani. Le interazioni linguistiche fra Emilia-Romagna e Toscana” (Pendragon 2020) e “Mé a dscårr in bulgnaiṡ. Manuale per imparare il dialetto bolognese” (Pendragon 2022).

Commenta