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Allarme spread, l’Italia peggiora anche verso Spagna e Portogallo

Il Governo pensa di poter ignorare i vincoli europei di finanza pubblica, che non sono il frutto della perfidia di Bruxelles ma dei nostri squilibri macroeconomici, e i mercati non perdonano: il nostro spread si allarga non solo verso la Germania ma anche verso i Paesi iberici e i contribuenti italiani pagano il conto

Allarme spread, l’Italia peggiora anche verso Spagna e Portogallo

Nella famosa scena del chicken run del film “Gioventù bruciata”, James Dean e i suoi compari si lanciano a forte velocità a bordo di un’auto per gettarsi fuori prima che essa precipiti nello strapiombo sul mare. Vince chi si getta per ultimo e nel film uno degli amici ci rimette la pelle. Purtroppo, il gioco ingaggiato dal governo giallo-verde nel suo braccio di ferro con Bruxelles somiglia un po’ al chicken run. Dirgliene quattro può non bastare e allora gliene dicono otto, e così via. I nostri governanti pensano che una Italexit provocherebbe uno sconquasso letale dell’Unione Europea e, dunque, minacciarla indurrà la Commissione all’accondiscendenza. Ma a Bruxelles non la pensano esattamente così: l’Italexit sarebbe un danno ma non fatale. Così i veicoli si avvicinano al burrone. E la forza negoziale del governo italiano si sta riducendo. 

Prova della scarsa fiducia da parte degli investitori – sia nazionali che internazionali – è l’incedere dello spread, parola esecrata ma necessaria. La differenza rispetto al 2011 è che stavolta lo spread lo possiamo misurare sulla Spagna e il Portogallo e non c’è più bisogno di scomodare la Germania. Rispetto a un anno fa, lo spread tra Italia e Spagna si è ampliato di circa 125 punti base (l’1,25 per cento), quasi interamente a causa dell’aumento dei tassi che dobbiamo pagare sui BTP, e di ben 205 punti base (2,05 per cento) è cresciuto quello dell’Italia nei confronti del Portogallo, in questo caso circa 90 punti base sono dovuti all’abbassamento dei tassi portoghesi. Così, se un anno fa il Portogallo pagava sui suoi titoli a dieci anni circa 0,8 per cento in più dei nostri BTP di pari durata, oggi i nostri titoli pagano quasi l’1,3 per cento in più di quelli portoghesi. Dato il nostro debito pubblico, a regime questo innalzamento dei tassi d’interesse sui BTP ci costerebbe svariate decine di miliardi di euro. Questo accade in una fase in cui il Quantitative Easing, seppur in via di smantellamento, è ancora all’opera. 

Per di più, la situazione internazionale volge al brutto, come testimoniano le crisi in corso in Argentina e Turchia. Proprio come nel 2001, i due Paesi si trovano a subire una crisi di cambio pressoché contemporanea. Oltre alle specifiche vicende nazionali, ciò segnala il riemergere di tensioni sui mercati finanziari mondiali. 

È comprensibile che il governo gialloverde voglia rimarcare il cambiamento. E i tempi della politica possono essere, in parte, diversi da quelli dei mercati finanziari. Ma, a lungo andare, un governo saggio dovrà tenere conto dei vincoli che fronteggia. Questi vincoli ci sono imposti non dall’acrimonia dei grigi funzionari di Bruxelles bensì dai nostri squilibri macroeconomici. In primis il debito pubblico. Di recente, il ministro Tria è andato a Pechino anche in cerca di investitori e ha detto che presto lo spread si ridurrà. Speriamo che abbia ragione lui e che il chicken run non finisca male. 

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