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Ajassa: il riorientamento e il calo del Pil della Cina non fanno bene all’export italiano

Il riorientamento politico ed economico della Cina, che comporterà più consumi e meno investimenti e crescita, avrà sicuramente implicazioni importanti per l’export italiano: meno meccanica e più borse, scarpe e abbigliamento – Sarà interessante vedere anche l’effetto della visita di Monti in Cina.

Ajassa: il riorientamento e il calo del Pil della Cina non fanno bene all’export italiano

Dopo gli spread sui rischi sovrani europei, l’attenzione dei mercati e dei commentatori ha un nuovo argomento su cui confrontarsi. E’ la transizione cinese. Transizione politica, con il previsto avvicendamento nel prossimo autunno ai vertici della Repubblica Popolare con le sostituzioni del Presidente Hu Jintao e del premier Wen Jabao. Transizione economica, con i segnali che giungono circa il passaggio ad un mix quali-quantitativo caratterizzato da un po’ meno di crescita e da un po’ più di consumi.

Quello che accade in Cina può sembrare lontano e poco rilevante per noi in Italia. Non è affatto così. Da almeno un decennio la Cina è una stella polare dell’economia mondiale. Solo nel 2011 Pechino ha generato oltre il quindici per cento della crescita del PIL del Mondo espresso in dollari. La Cina, cosa meno nota, è già oggi al vertice degli equilibri finanziari mondiali. Le banche cinesi, nel loro insieme, capitalizzano più delle banche degli Stati Uniti. Le riserve valutarie cinesi ammontano a quasi due volte il PIL italiano. Cresce l’importanza della posizione cinese nelle grandi questioni geo-politiche  che scuotono il pianeta. Per noi, nel 2011 il peso della Cina tra i clienti dell’export italiano è cresciuto al 2,7 per cento e al settimo posto. Dieci anni fa, agli albori dell’euro cartaceo e dell’ingresso di Pechino nel WTO, la quota cinese era pari solo all’1,2 per cento corrispondente alla quindicesima posizione tra i compratori internazionali di export italiano.

Se la Cina conta, bene è cercare di farsi qualche idea sulle principali tendenze dell’economia di Pechino. Sgombrando il terreno, innanzitutto, da alcuni luoghi comuni. Il principale tra questi concerne quello che da venti anni è il motore dell’economia cinese. Non è il commercio estero. Sono gli investimenti fissi dell’industria.

Negli ultimi venti anni la quota sul totale del PIL cinese assunta dalle esportazioni nette – la differenza tra export ed import – si è mediamente attestata al quattro per cento. Nello stesso periodo il peso degli investimenti fissi dell’industria è cresciuto in Cina dal 28 al 46 per cento. Mal contata, la metà del prodotto cinese è fatta da investimenti. E’ una quota molto alta, come molto lungo è il tempo durante il quale l’accumulazione accelerata del capitale fisso è proseguita in Cina. Per avere un termine di paragone, nel Secondo Dopoguerra in Italia l’intensità degli investimenti sul PIL crebbe dal 7% del 1944 al massimo del 26% del 1960.

Nella Cina degli ultimi venti anni come nell’Italia del quindicennio della Ricostruzione il decollo dell’industrializzazione ha trovato supporto nell’ampia eccedenza di lavoro agricolo a buon mercato e nel consistente flusso migratorio da quel settore all’industria. In linea con i dettami teorici del modello interpretativo proposto già nel 1954 dall’economista inglese W. A. Lewis il movimento dalle campagne alle fabbriche costituisce una determinante essenziale del modello cinese di sviluppo. Ora la novità della “transizione” cinese è che questo movimento di urbanizzazione dei contadini comincia a rallentare. Quantomeno, si ridimensiona la capacità che il surplus di lavoro agricolo ha avuto finora nel calmierare a livelli di assoluta competitività internazionale il costo del lavoro nell’industria cinese.

Secondo stime della Banca mondiale la quota di occupazione nell’agricoltura scenderà in Cina dal 38% del quinquennio 1995-2010 al 30% previsto per gli anni 2011-2015. Nello stesso periodo, tra il lustro che abbiamo alle spalle e quello che abbiamo davanti, la quota degli investimenti sul PIL calerà dal 46 al 42%. La percentuale dei consumi sul prodotto aumenterà, invece, dal 49 al 56 per cento per poi salire ai due terzi del PIL nell’orizzonte del 2030.

Certo, la transizione sarà lunga. Secondo la Banca mondiale ancora nel 2030 la quota di occupazione nell’agricoltura sarà in Cina pari al triplo di quella che è oggi in Italia, il dodici contro il quattro per cento. Ma il punto di svolta, verosimilmente, è stato superato. Ad esserne consapevoli sono in primo luogo i governanti di Pechino, come ha testimoniato il recente intervento del premier Wen Jabao al Congresso Nazionale del Popolo.

Nel medio termine anche la crescita cinese tornerà a muoversi entro gli argini neoclassici dell’incremento della popolazione e del saggio di progresso tecnico. Via via incrementi annui del dieci per cento del PIL reale cederanno il passo ad aumenti del sette-otto per cento e quindi del cinque per cento. Già quest’anno una decelerazione potrebbe essere registrata nel ritmo reale di crescita. I rischi di atterraggi drastici della congiuntura potranno essere alleviati dalla manovra delle leve monetarie e creditizie, da sempre ben conosciuta e praticata in entrambe le direzioni dalle autorità di Pechino.

Più della decelerazione del PIL, ciò che nella transizione cinese risulterà importante per noi italiani è l’avvio di una tendenza marcata di riorientamento dagli investimenti delle imprese ai consumi delle famiglie.

A gennaio 2012, all’interno dell’export italiano verso la Cina, le vendite di macchinari hanno segnato un calo di ventisei punti percentuali rispetto al medesimo periodo dell’anno scorso. Nello stesso mese, le esportazioni italiane in Cina di abbigliamento e articoli in pelle sono aumentate del venticinque per cento. Meno macchine, ma più abiti, scarpe e borse, con un saldo però negativo visto il peso maggiore che in Cina come altrove la meccanica assume rispetto agli altri settori di articolazione delle nostre esportazioni. La meccanica è un comparto assolutamente strategico per l’economia italiana. In questo quadro, l’evoluzione delle vendite di macchinari italiani in un mercato finora trainante come quello cinese meriterà di essere attentamente monitorata nei prossimi mesi.

E’ presto per dire se la transizione cinese sia già oggi evidente nei conti dell’export italiano. Di sicuro lo potrà essere domani. Già oggi quello che accade in Italia è una pericolosa decelerazione delle nostre esportazioni, sia verso l’area euro sia verso i mercati extra-europei. In Cina inizia un tempo nuovo di rallentamento degli investimenti e di accelerazione dei consumi. All’Italia occorre una ripresa dei consumi e un ancor più vigoroso rilancio degli investimenti, per uscire dalla nostra recessione e cercare di trarre vantaggio dalle altrui transizioni.

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