Luglio 1962: per tre giorni, da sabato 7 a lunedì 9 luglio, una delle piazze principali di Torino, piazza Statuto, e le vie adiacenti furono teatro di violenti scontri tra la polizia, in particolare il famoso in quegli anni reparto celere di Padova, e i manifestanti con decine di feriti da ambo le parti ed oltre mille arresti.
Ricordati come “i fatti di Piazza Statuto”, con il passare del tempo divennero una sorta di epopea leggendaria dello spontaneismo e dell’autonomia operaia, anche se le cronache del tempo segnalano una serie di infiltrazioni e provocazioni di segni apparentemente incomprensibili.
Mentre il Ministro degli Interni, Paolo Emilio Taviani, addebitava la responsabilità degli incidenti ai comunisti torinesi, il torinese Giuseppe Saragat, segretario del partito socialdemocratico e futuro Presidente della Repubblica, segnalava che in piazza si trovavano anche gli integralisti cattolici della Cisl del potente leader democristiano, anch’egli torinese, Carlo Donat Cattin.
Smentivano invece una fattiva partecipazione del sindacato ai tumulti, anzi si dissociavano, il segretario della Camera del Lavoro Sergio Garavini e il segretario della FIOM torinese Emilio Pugno. Ma quale fu il pretesto che innescò la miccia dei moti di piazza, spontanei o meno?
Nel febbraio di quell’anno, con la nascita di un governo DC-PRI-PSDI presieduto da Amintore Fanfani con l’appoggio esterno, per la prima volta, del PSI, si apriva una frattura tra la Fiat, che appoggiava il nuovo governo in quanto, come disse Valletta, “frutto dello sviluppo dei tempi” e la Confindustria capeggiata dal fronte degli elettrici, che erano fermamente contrari alla nazionalizzazione dell’energia elettrica prevista dal programma di governo.
Il 1962 era anche un anno di rinnovi contrattuali, tra cui il principale, quello dei metalmeccanici.
Il Presidente di Confindustria Furio Cicogna, Presidente della Chatillon, eletto alla fine dell’anno precedente contro il parere della Fiat e rappresentante del fronte antigovernativo, colse la palla al balzo per assumere una posizione molto rigida nei confronti dei rinnovi contrattuali rigettando le piattaforme rivendicative sindacali.
Valletta invece riteneva che il contratto dei metalmeccanici, che sarebbe scaduto ad ottobre, dovesse chiudersi rapidamente e possibilmente senza il ricorso agli scioperi e alle conseguenti perdite produttive.
La Fiat nel 1962 aveva superato gli 80.000 operai a Torino, e la produzione di automobili nelle fabbriche del Lingotto e di Mirafiori sarebbe stata di 769.000 unità, quasi 200.000 in più rispetto all’anno precedente.
Valletta, inoltre, la pensava come Henry Ford: gli operai dovevano essere pagati bene perché dovevano essere i primi clienti dell’azienda, e proprio in una intervista di quell’anno al quotidiano Il Messaggero il Professore sottolineava che “i nostri operai per il 30 per cento oggi sono in possesso dell’automobile”.
Peraltro la posizione della Confindustria irrigidisce i sindacati, in particolare i metalmeccanici della FIOM-Cgil e della FIM-Cisl, che scelgono come terreno di scontro la Fiat, anche per riprendersi dalle durissime sconfitte alle elezioni della Commissione Interna, quando il sindacato aziendale SIDA (Sindacato Italiano dell’Auto) aveva ottenuto una schiacciante vittoria con 72 membri eletti seguito dalla UILM con 64 ed a distanza la FIOM con 35 e la FIM con 32.
Nel mese di giugno iniziano gli scioperi a Mirafiori organizzati dalla FIOM e dalla FIM: le adesioni non sono elevate ma dalle linee di montaggio escono vetture incomplete che finiscono sui piazzali e non possono essere consegnate alla rete di vendita.
La Fiat reagisce con durezza. Per due giornate sono messi in libertà tutti gli operai degli stabilimenti torinesi, la cosiddetta “serrata difensiva”, mentre vengono comandati al lavoro solo alcune centinaia di operai specializzati (in grado di fare i baffi anche alle mosche, secondo un detto piemontese) per completare gli allestimenti delle vetture ferme sui piazzali di spedizione.
La protesta dei sindacati nazionali non si fa attendere: è proclamato uno sciopero nazionale dei metalmeccanici di due giornate, il 9 ed il 10 luglio per il rinnovo del contratto nazionale e contro la serrata antisindacale della Fiat.
Più defilata è la posizione del PCI: a metà giugno Valletta è stato a Mosca per incontrare Kossighin, il capo del governo sovietico, per definire alcuni accordi industriali, tra cui la costruzione in Russia di uno stabilimento automobilistico Fiat, prima azienda occidentale a farlo.
Per scongiurare la partecipazione allo sciopero nazionale, la Fiat, nella notte tra il venerdì 6 ed il sabato 7 luglio sigla un precontratto con il SIDA e la Uilm provinciale e con i relativi componenti della Commissione Interna, che costituiscono la maggioranza assoluta della stessa.
Vengono praticamente accolte, come anticipo contrattuale, le richieste della piattaforma rivendicativa sindacale con l’aggiunta di alcune specificità aziendali connesse alla organizzazione del lavoro, come l’indennità di cottimo e di disagio linea.
Il coacervo delle voci retributive rinnovate porta la paga oraria media dell’operaio di Mirafiori, esclusa la contingenza, da 307,53 lire a 361,97 con un aumento di oltre 17 punti percentuali.
La notizia della firma dell’accordo viene diffusa immediatamente alle 6 del mattino all’entrata del primo turno (nel 1962 l’orario settimanale dei metalmeccanici era ancora di 44 ore, per cui gli operai turnisti montavano di primo turno a sabati alterni) dai sindacalisti firmatari dell’accordo che invitano i lavoratori ad astenersi dagli scioperi proclamati per la settimana successiva.
Sindacati firmatari e azienda avevano però sottovalutato il malcontento che in quegli anni stava crescendo a Torino, dove antagonismo e aggressività si coagulavano in quella popolazione operaia costituita da giovani in prevalenza di recente immigrazione dal sud che manifestava tutto il proprio disagio sociale nel passaggio da una cultura contadina ad una cultura industriale non ancora assimilata.
Quel sabato 7 luglio sono proprio questi giovani che, alla notizia dell’accordo separato, si riversano dalle fabbriche Fiat, non solo di Mirafiori e del Lingotto ma anche della SPA, della Grandi Motori Marini, dell’Avio o delle Fucine e Fonderie, in migliaia verso Piazza Statuto dove ha la sede la UIL provinciale.
I più facinorosi lanciano pietre contro le finestre e tentano di irrompere nella sede sindacale, interviene la polizia, iniziano gli scontri, i sindacalisti presenti della CGIL e della CISL perdono il controllo della piazza.
La protesta violenta, con numerosi feriti tra i manifestanti e le forze dell’ordine, continuerà, salvo le ore notturne, la domenica e il lunedì 9 luglio, primo giorno dello sciopero generale proclamato dei metalmeccanici.
Le cronache del tempo ci dicono che già da sabato pomeriggio la protesta operaia si era però trasformata in qualcosa di indecifrabile: erano comparsi manifestanti armati di fionde, bastoni e catene, e forniti di cubetti di porfido da lanciare contro la polizia.
C’è chi sosterrà di aver visto gruppi di “anarcoidi” collegati ad un giornale di Milano e misteriosamente inviato a tutti gli operai Fiat, tra i fermati ci saranno dei neofascisti e attivisti comunisti provenienti da altre città, ma soprattutto molti sosterranno di essere stati assoldati per 1500 lire e un pacchetto di Esportazione da 20 sigarette.
Ci sono infine in piazza tutta una serie di gruppi di teppisti che erano già saliti alla cronaca per avere spaccato a Torino, qualche mese prima, le telecamere di una nota trasmissione nazionalpopolare o avevano devastato il teatro all’Esposizione per il Centenario dell’Unità d’Italia.
Da una testimonianza raccolta da alcuni giovani giornalisti della Gazzetta del Popolo (future firme dei principali quotidiani italiani), che avevano impedito l’invasione della sede del proprio giornale in corso Valdocco a due passi da Piazza Statuto, si legge:
“Non so chi fosse quello che dava i soldi. Non era mica solo, era sceso da un camion, sul camion c’era altra gente. Sul camion c’erano anche le pietre. Mi dissero che con quelle piccole dovevo dare i pugni, così i pugni facevano più male. Le pietre grosse le dovevo tirare”.
Il 5 agosto 1962 la Fiat licenzia 84 operai individuati tra i promotori dei fatti di Piazza Statuto.
La vertenza sindacale si concluse comunque nell’ottobre dello stesso anno quando la Fiat e l’Olivetti firmarono con i sindacati metalmeccanici nazionale un protocollo di acconto sul futuro contratto che ricalcava l’accordo separato di luglio.
Il “protocollo di acconto” fu poi recepito da numerose altre aziende, segnando la definitiva rottura tra la linea di Valletta e quella della Presidenza della Confindustria.
Il modello di relazioni sindacali basato sugli accordi aziendali anticipatori dei contratti nazionali, sviluppatosi nel dopoguerra, era però alla fine: ancora qualche anno e poi sarebbero arrivate le stagioni contrattuali figlie dell’“autunno caldo”.