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Zefferino Monini: “Ecco come salvo il made in Italy. Ma la Spagna vola e ci ha superato la Tunisia”

INTERVISTA ALL’AD DELL’OLIO MONINI – “La Spagna ci surclassa perchè negli anni 80 ha investito con intelligenza gli aiuti Ue mentre noi abbiamo perso tempo: fanno più olio di noi e anche di qualità, e siamo costretti a importare più di quanto produciamo”- “Abbiamo delocalizzato in Australia non per la manodopera ma per aumentare la produttività”.

Zefferino Monini: “Ecco come salvo il made in Italy. Ma la Spagna vola e ci ha superato la Tunisia”

“L’Italia sta perdendo la sfida dell’olio: la Spagna produce dalle 4 alle 6 volte più di noi, e pur avendo meno varietà ha raggiunto anche un ottimo livello qualitativo”. A lanciare l’allarme è Zefferino Monini, 52enne presidente e amministratore delegato dell’omonima azienda di famiglia fondata a Spoleto nel 1920 dal nonno, pioniera della qualità extravergine in Italia e giunta alla terza generazione. Già di per sé una rarità, visto che nel Centro Italia solo il 15% delle aziende familiari resiste così a lungo (e solo il 3-4% arriva alla quarta generazione), e ancora di più se per salvaguardare l’identità del marchio e i 110 posti di lavoro in Italia sta affrontando le sfide più complicate, a incominciare dalla crisi che, nel 2013, ha fatto calare il mercato del 10%.

A modo suo, l’erede della dinastia umbra ha salvaguardato il made in Italy, anche se la maggior parte dell’olio confezionato da Monini (e in generale in Italia) arriva dall’estero (principalmente dalla concorrente Spagna) e anche se da qualche anno la maggior parte dei produzione propria arriva da un’olivicoltura australiana. “La Spagna è ormai nettamente il primo produttore al mondo con il 65% della quota – spiega Monini – e l’Italia, complice anche una stagione climaticamente avversa, scivolerà quest’anno in quarta posizione dietro anche a Grecia e Tunisia. In molti mercati ci hanno sopravanzato, come quello russo dove Monini è il primo marchio italiano per l’olio ma solo il terzo in assoluto, dietro a due spagnoli. Paradossalmente, pur avendo la tradizione e le migliori varietà grazie alle caratteristiche uniche dei nostri territori, in Italia produciamo meno olio di quanto ne importiamo: su un totale di 9 milioni di quintali immessi sul mercato, 5 arrivano dall’estero”.

Monini, che nel 2013 ha fatturato 125 milioni di euro, arrivando in 58 Paesi nel mondo (il primo mercato è la Russia ma c’è anche un olificio negli Stati Uniti e una forte presenza commerciale in Polonia e Svizzera), ne è l’esempio: dei 27,3 milioni di litri di olio prodotti l’anno scorso (di cui l’85% di qualità extravergine), solo l’1,5% è arrivato da olive raccolte in Italia, nelle storiche colline intorno a Spoleto o nel distaccamento pugliese. Il resto viene importato o prodotto in Australia, dove in un’area di 700 ettari nel Nuovo Galles del Sud sono state trapiantate 106mila piante italiane e dove ogni albero rende 45 Kg di olive rispetto ai 12-15 kg di quelle umbre. “Non siamo andati in Australia per il costo della manodopera, che anzi è simile a quello europeo, ma perché la stagione invertita ci permette di realizzare due cicli produttivi l’anno, e perchè le caratteristiche del terreno consentono la crescita di alberi più robusti e dunque più produttivi di quelli che crescono sulle pendenze collinari, che però garantiscono varietà e qualità superiori”.

Il primo tema è dunque quello della produttività. “In Australia utilizziamo un’olivicoltura moderna, che in Italia non c’è ancora e che è la stessa che utilizza la Spagna: più automatizzata, più veloce e che richiede meno manodopera. Risultato: mentre da noi scuotiamo ancora gli alberi praticamente in modo manuale, il costo di un 1 litro d’olio in Spagna (la manodopera è la prima voce nei costi, ndr) è di 1,8 euro. In Puglia siamo sui 3 euro, qui da noi a Spoleto addirittura sui 6-8 euro”. Più competitività, dunque, e neanche a discapito della qualità. “Uno dei temi centrali è che l’Italia produce meno ma non rappresenta neanche più l’unica eccellenza: i nostri marchi godono ancora di grande prestigio, ma la Spagna ha ormai ottime qualità e stanno crescendo anche realtà come Portogallo, Argentina e Turchia. Anche perchè più la raccolta è veloce, migliore è la qualità”.

Ecco perché, visto che il mercato dell’Est Europa è al momento il principale sbocco, l’embargo russo rischia di diventare una iattura. “Se i nostri prodotti spariscono dagli scaffali, faranno molta fatica a tornarci: perché i consumatori compreranno olio turco o del Nordafrica (in particolare Marocco e Tunisia) e noteranno tutto sommato poche differenze”. Ma quando è che l’Italia ha perso la sfida della competitività? “Adesso il Ministero dell’Agricoltura non ci ascolta, ma le radici del problema sono negli anni ’80, quando dopo il boom che ci permise di raggiungere, nel 1981, i 60 miliardi di lire di fatturato, la concorrenza di oli low cost importati dagli Stati Uniti costrinse la Comunità europea a erogare aiuti a pioggia all’agricoltura: mentre la Spagna li ha utilizzati per investire e ammodernare l’olivicoltura, in Italia molti hanno fatto i furbetti, soprattutto al Centro-Sud, approfittandone quasi soltanto per abbattere i costi e penalizzare mercati di medio-alto target come il nostro”.

Eppure Zefferino Monini che ancora, nel solco della tradizione inaugurata quasi cento anni fa dall’omonimo nonno, assaggia e seleziona personalmente l’olio con i suoi collaboratori, non molla. “Dobbiamo crescere all’estero perché al momento soltanto il 30% della nostra produzione viene venduto fuori dall’Italia – spiega l’ad del marchio presente comunque nei cinque continenti -. I mercati sui quali puntare di più? Sempre l’Est Europa e la Svizzera, dove siamo già leader, ma non possiamo dimenticare la Cina, anche se abbiamo pochissimo mercato lì. Negli Usa, dove abbiamo la Monini North America che fattura 6 milioni di dollari, è invece più difficile perché è molto forte la logica del low cost, che noi non seguiamo”.

L’obiettivo è sì di crescere, ma mantenendo identità e portando l’azienda a quella quarta generazione che significherebbe qualità, storia e in qualche modo italianità. “La crisi degli anni ’80 ci portò a cedere a Star il 35% della quota, e all’inizio degli anni 2000 abbiamo anche rischiato di perdere il controllo, perché la famiglia Fossati attraverso Marco (attuale azionista di Telecom Italia, ndr) aveva grandi ambizioni di internazionalizzazione e ci aveva fatto un’offerta. Io e mia sorella Maria Flora ci siamo opposti e abbiamo ricomprato il 100% delle azioni: forse saremmo effettivamente cresciuti di più, ma il marchio non sarebbe più stato italiano. Tant’è vero che oggi Star è spagnola mentre noi, seppur con difficoltà, lavoriamo ancora in Italia”.

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