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Visco (Bankitalia) spegne l’ottimismo del Governo sulla crescita

Al Congresso del Forex il Governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, evidenzia gli “ampi rischi al ribasso” delle stime di crescita dell’economia italiana sia per ragioni interne – soprattutto per l’incertezza della politica di bilancio – che per le incognite internazionali – Lo spread è ancora “elevato” – Le complicazioni del bail-in.

Visco (Bankitalia) spegne l’ottimismo del Governo sulla crescita

Ecco il testo dell’intervento del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in occasione della 25esima edizione del Congresso AssiomForex a Roma.

La congiuntura

Dalla metà dello scorso anno l’economia globale sta rallentando. L’attività produttiva si è significativamente indebolita in tutta l’area dell’euro; in Italia ha registrato una flessione. Al deterioramento del quadro macroeconomico hanno contribuito vari fattori, in parte di natura temporanea; sono peggiorate le prospettive della domanda estera, le aspettative delle imprese e la dinamica degli investimenti. Nel secondo semestre del 2018 la produzione industriale è diminuita nell’area dell’euro dello 0,5 per cento. Il calo è stato più forte in Germania (2,2 per cento) e in Italia (0,8 per cento), anche per l’adeguamento nel settore dell’auto alla nuova normativa internazionale sulle emissioni inquinanti dei veicoli leggeri. In Italia la domanda interna ha risentito del marcato aumento dell’incertezza, legato prima ai dubbi sulla posizione del Paese riguardo alla partecipazione alla moneta unica, poi al difficile percorso che ha portato alla definizione della legge di bilancio, segnato da contrasti con la Commissione europea risolti solo alla fine dell’anno. L’aumento dei premi per il rischio sui titoli di Stato che ne è derivato si è trasmesso al costo della raccolta obbligazionaria del settore privato, in un contesto di flessione dei corsi azionari.

Le nostre ultime proiezioni sulla crescita dell’economia italiana per l’anno in corso, pubblicate nel Bollettino economico di gennaio, si collocano allo 0,6 per cento, in linea con quelle elaborate dai principali previsori nazionali e internazionali, ma con ampi rischi al ribasso. Rispetto alle stime di inizio dicembre – quando la proiezione centrale della crescita del PIL era pari all’1,0 per cento – la revisione riflette in larga parte l’inclusione di dati sfavorevoli sull’attività economica divenuti disponibili successivamente e confermati dalle informazioni sul quarto trimestre diffuse questa settimana dall’Istat; vi contribuiscono inoltre il ridimensionamento dei piani di investimento delle imprese segnalato dalle nostre indagini e il peggioramento delle attese sulla domanda estera. Le proiezioni tengono conto del sostegno fornito alla domanda aggregata dalle misure espansive del bilancio pubblico per il 2019, la cui effettiva entità dipenderà dalle modalità di attuazione. L’accordo raggiunto dal Governo con la Commissione europea ha determinato un parziale riassorbimento delle tensioni sul mercato dei titoli di Stato con effetti complessivamente positivi sulla domanda. L’attività economica beneficerà del mantenimento di condizioni monetarie molto accomodanti.

Sulle prospettive per l’anno in corso e sulle proiezioni per il successivo biennio, che prefigurano il ritorno della crescita attorno all’1 per cento, gravano fattori di rischio rilevanti, di origine sia internazionale sia interna. Tra i primi, i principali riguardano l’andamento degli scambi con l’estero, le vulnerabilità dei paesi emergenti e le modalità di uscita del Regno Unito dall’Unione europea. Sul fronte interno rileva ancora l’andamento dei tassi di interesse sui titoli di Stato. L’orientamento protezionistico delle politiche commerciali degli Stati Uniti nei confronti della Cina, con la quale è in corso un complesso negoziato, e dell’Unione europea, già colpita lo scorso anno dall’introduzione di tariffe sull’alluminio e sull’acciaio, potrebbe accentuarsi. Ulteriori incertezze provengono dal rallentamento in atto dell’economia cinese, connesso anche con le iniziative volte a contenere l’indebitamento del settore privato, e dalle difficili condizioni politiche ed economiche di importanti paesi emergenti. Un’uscita senza accordo del Regno Unito dall’Unione europea può avere conseguenze pesanti, anche se gli effetti diretti legati all’interscambio commerciale, gravi per il Regno Unito, potrebbero essere contenuti per l’Italia e per il complesso dei paesi dell’Unione. Eventuali malfunzionamenti dei mercati finanziari potrebbero avere ricadute di rilievo per tutti i paesi coinvolti; a questo aspetto si sta prestando
massima attenzione.

In Italia il Governo ha predisposto, in raccordo con le autorità di vigilanza, le misure da emanare in caso di necessità; esse prevedono un congruo regime transitorio per garantire l’integrità e la continuità operativa dei mercati e degli intermediari – sia quelli britannici che operano in Italia sia quelli italiani che operano nel Regno Unito – nonché interventi a tutela degli investitori e della clientela. Importanti decisioni sono state già adottate dalla Commissione europea ed è in corso la definizione delle condizioni che assicurano la continuità delle transazioni finanziarie tra intermediari europei e controparti centrali britanniche. Il Comitato di risoluzione unico ha inoltre annunciato che adotterà un approccio flessibile, nei casi di mancato riconoscimento di titoli emessi nel Regno Unito, ai fini del rispetto del requisito minimo di fondi propri e di passività assoggettabili a bail-in (Minimum requirement for own funds and eligible liabilities, MREL). Come le autorità nazionali ed europee hanno ricordato più volte, gli intermediari devono comunque farsi parte attiva nella preparazione a una possibile uscita senza accordo. Dal picco della metà di novembre il differenziale di rendimento tra i titoli di Stato italiani a dieci anni e i corrispondenti titoli tedeschi è diminuito di circa 80 punti base. Il premio per il rischio sulle obbligazioni pubbliche italiane, pari a 250 punti base nella media di questa settimana, resta tuttavia elevato; è circa il doppio rispetto ai valori medi dei primi quattro mesi dello scorso anno.

L’incertezza sulla politica di bilancio non si è dissipata. L’accordo con la Commissione è stato raggiunto per il 2019, ma per il 2020-21 restano da definire numerosi aspetti e, specialmente, il futuro delle cosiddette clausole di salvaguardia, il cui importo è stato portato all’1,2 per cento del prodotto nel 2020 e all’1,5 nel 2021. Se fossero disattivate senza prevedere misure compensative, il disavanzo si collocherebbe intorno al 3 per cento del PIL in entrambi gli anni. Per assicurare un effettivo sostegno all’attività economica la politica di bilancio deve preservare la fiducia nel percorso di riequilibrio dei conti pubblici e nella prospettiva di riduzione del rapporto tra debito e prodotto. L’ammontare di titoli pubblici da collocare annualmente sul mercato continua a essere ingente: quasi 340 miliardi per il solo rinnovo dei titoli in scadenza nel 2019, che si sommano ai circa 50 previsti a copertura del disavanzo. Le condizioni dei mercati finanziari rimangono tese. Rispetto al picco della scorsa primavera i corsi azionari sono calati del 12 per cento nell’area dell’euro e del 17 in Italia; nello stesso periodo i rendimenti delle obbligazioni private sono aumentati rispettivamente di 40 e 100 punti base (all’1,6 e al 2,5 per cento). La divergenza rispetto alla media dell’area è stata più marcata nel settore bancario, dove gli indici di borsa sono diminuiti in media di quasi il 40 per cento, a fronte di un calo del 30 nell’area dell’euro, e i rendimenti delle obbligazioni sono quasi raddoppiati, al 2,4 per cento, contro un aumento medio di 0,3 punti percentuali nel complesso dell’area.

I più elevati costi di finanziamento sostenuti dalle banche si sono finora trasmessi ai tassi di interesse sui prestiti in misura minore che in passato, grazie alla maggiore patrimonializzazione degli istituti di credito e a una ricomposizione del loro passivo verso strumenti finanziari meno esposti alle variazioni dei tassi di interesse di mercato. Segnali di un moderato irrigidimento delle condizioni di accesso al credito si cominciano tuttavia a cogliere nei sondaggi effettuati presso le imprese. La settimana scorsa il Consiglio direttivo della Banca centrale europea ha espresso preoccupazione per gli accresciuti rischi al ribasso che circondano le prospettive dell’attività produttiva dell’area dell’euro e che possono riflettersi sull’andamento dell’inflazione nel medio periodo. La riduzione della crescita dei prezzi al consumo, all’1,4 per cento in gennaio, riflette soprattutto il rallentamento della componente energetica ma l’inflazione di fondo, pari all’1,1 per cento, ancora stenta a riprendersi. La trasmissione ai prezzi del rafforzamento dei salari è stata frenata negli ultimi mesi dalla debolezza dell’attività economica, che si è riflessa in una diminuzione dei margini di profitto delle imprese. Il Consiglio continuerà a perseguire l’obiettivo di stabilità dei prezzi – definito come è noto da un tasso di inflazione prossimo al 2 per cento nel medio periodo – con tenacia e pazienza.

Il mantenimento di un significativo stimolo monetario sarà garantito dal basso livello dei tassi ufficiali, dall’ampia consistenza dei titoli nel portafoglio delle banche centrali e dal reinvestimento del capitale quando questi verranno a scadenza, una misura che proseguirà per un periodo prolungato. Qualora le condizioni macroeconomiche lo richiedessero il Consiglio è pronto a utilizzare tutti gli strumenti a sua disposizione per assicurare, con la tenuta della domanda aggregata, il progressivo riaggiustamento dell’inflazione verso l’obiettivo di stabilità dei prezzi. Per poter fruire appieno dei benefici derivanti dalle condizioni espansive determinate dalla politica monetaria serve il contributo delle riforme volte a ridurre le debolezze strutturali della nostra economia, debolezze che accentuano le difficoltà congiunturali. Occorrono progressi decisi nella creazione di un ambiente più favorevole all’innovazione e all’attività d’impresa, va incentivata la partecipazione al mercato del lavoro, innalzata la qualità del capitale umano, aumentata l’efficienza dei servizi pubblici. Dal 1999 il tasso di crescita annuo dell’economia italiana è risultato in media inferiore di un punto a quello dell’area dell’euro. In assenza di risultati consistenti sul piano strutturale, quelli che a livello internazionale sono rallentamenti di natura congiunturale tendono da noi a trasformarsi in un ristagno o in un calo dell’attività produttiva. Il benessere delle famiglie dipende da numerosi fattori ma è cruciale la capacità di crescita dell’economia. Possono sostenerla investimenti pubblici, complementari a quelli privati, realizzati con rapidità ed efficienza nel quadro di un progressivo riequilibrio dei conti dello Stato.

Ma, soprattutto, devono continuare a rivestire un ruolo centrale nell’azione di politica economica interventi volti a rafforzare e modernizzare la struttura produttiva, a renderla più dinamica e in grado di creare maggiori opportunità di lavoro. Anche se i risultati di nuovi interventi, come per quelli degli anni passati, avranno bisogno di tempo per manifestarsi appieno, la loro attuazione potrà sostenere già nell’immediato la fiducia delle imprese e delle famiglie e, per questa via, la loro propensione a investire e a consumare.

L’intermediazione finanziaria

In Italia il miglioramento della qualità del credito, in atto dalla metà del 2015, è proseguito lo scorso anno. Nel terzo trimestre il tasso di deterioramento dei prestiti è sceso all’1,7 per cento, in linea con i valori prevalenti prima della crisi finanziaria globale; per i finanziamenti alle imprese il calo si è arrestato negli ultimi mesi dell’anno con il rallentamento congiunturale. Nei primi nove mesi del 2018, anche in seguito a numerose operazioni di cessione, la consistenza dei crediti deteriorati è scesa da 259 a 216 miliardi al lordo delle rettifiche di valore, da 129 a 99 al netto. L’incidenza sul complesso dei finanziamenti si è ridotta, su base netta, dal 6,1 al 4,8 per cento; il tasso di copertura è cresciuto di quasi quattro punti, al 54 per cento. Per i gruppi significativi il calo dei prestiti deteriorati netti, pari alla fine di settembre del 2018 al 4,5 per cento dei finanziamenti, è coerente con i piani concordati dalle banche con la Vigilanza.

Le richieste di aumento dei tassi di copertura delle consistenze, rivolte a tutte le banche significative dell’area dell’euro, tengono conto delle specifiche condizioni di ciascuna di esse; diverranno operative a partire dal prossimo anno, prevedono il raggiungimento della piena copertura in un lasso di tempo che si estende fino al 2026 per le banche con incidenze nette relativamente elevate. Per le banche meno significative la quota dei prestiti deteriorati netti era del 7,1 per cento alla fine di settembre dello scorso anno. L’incidenza superava il 10 per cento per 50 delle 270 banche di credito cooperativo (BCC), alle quali faceva capo circa la metà del complesso dei crediti deteriorati della categoria; tra i circa 100 intermediari diversi dalle BCC un’incidenza superiore al 10 per cento si osservava per 23 banche, rappresentative di un terzo dei crediti deteriorati del comparto. I piani di riduzione predisposti dalle principali banche meno significative nei mesi scorsi, in base alle linee guida emanate dalla Banca d’Italia all’inizio del 2018, sono ora al vaglio della Vigilanza. Progetti che vedano la collaborazione tra intermediari e operatori specializzati nella gestione di crediti deteriorati possono rappresentare una buona soluzione anche per le “inadempienze probabili”, relative a imprese in temporanea difficoltà. L’anno scorso la redditività è migliorata. Nei primi nove mesi il rendimento del capitale, espresso su base annua, è salito per il complesso delle banche italiane al 6 per cento, dal 4 registrato nello stesso periodo del 2017.

La quota dei ricavi assorbita dai costi operativi, pari in media al 65 per cento, è però ancora troppo elevata, in particolare per le banche meno significative (dove il livello medio è pari al 74 per cento). Nel periodo considerato queste ultime hanno registrato una crescita dei costi, a fronte della riduzione osservata per i gruppi significativi; il divario è risultato ampio nella componente legata alle spese per il personale. In rapporto alle attività ponderate per i rischi il patrimonio di migliore qualità (CET1) si è ridotto nei primi nove mesi del 2018 dal 13,8 al 13,1 per cento. La diminuzione ha riflesso le perdite di valore connesse con le tensioni sul mercato dei titoli pubblici. L’impatto è stato maggiore per le banche meno significative, che in genere investono in titoli di Stato una quota degli attivi più elevata. Dalla fine del 2017, quando aveva toccato un minimo di 280 miliardi, l’esposizione delle banche in titoli pubblici italiani è cresciuta; alla fine dello scorso mese di novembre il valore dei titoli in portafoglio era pari a 330 miliardi, poco meno del 10 per cento del totale delle attività; resta inferiore al picco di 400 miliardi raggiunto all’inizio del 2015. Gli acquisti, concentrati nei mesi di maggio e giugno, sono avvenuti in parallelo con il rialzo dei rendimenti, in una fase di debolezza della domanda di credito. Gli investimenti delle banche contribuiscono a stabilizzare i prezzi dei titoli di Stato nei momenti di maggiore tensione e possono consentire successivi guadagni in conto capitale nel caso di una ripresa dei corsi; essi espongono, tuttavia, gli intermediari ai rischi associati a ulteriori cali dei prezzi.

La quota dei titoli classificati nel portafoglio valutato al costo ammortizzato, le cui variazioni temporanee di valore non incidono sul patrimonio, è cresciuta in media dal 18 al 49 per cento tra la fine del 2017 e novembre scorso; ha raggiunto il 61 per cento per le banche meno significative. Questo aumento contribuisce ad attenuare l’impatto di oscillazioni del valore dei titoli pubblici. Nella stessa direzione va la diminuzione della vita media residua dei titoli classificati nei portafogli valutati al fair value, da 4,2 a 3,6 anni. L’espansione dell’attività economica e condizioni ordinate sul mercato del debito sovrano favoriscono, con il ritorno della fiducia degli investitori, una graduale flessione dell’ammontare di titoli di Stato nei bilanci bancari: lo dimostra la significativa riduzione delle esposizioni realizzata tra l’inizio del 2015 e la fine del 2017. La crisi finanziaria globale, quella dei debiti sovrani e la doppia recessione che le ha accompagnate hanno indotto modifiche di rilievo nella composizione del passivo delle banche italiane. Si è fortemente ridotta la raccolta sul mercato; di premi per il rischio sono cresciuti, a causa sia di fattori specifici del settore bancario sia dell’evoluzione delle condizioni delle finanze pubbliche. Dal 2011 alla diminuzione della raccolta interbancaria si è accompagnato un notevole incremento del ricorso al rifinanziamento della banca centrale.

Negli ultimi anni, attraverso le quattro operazioni mirate di rifinanziamento a lungo termine condotte tra giugno 2016 e marzo 2017, l’Eurosistema ha assegnato alle banche italiane circa 240 dei 740 miliardi totali destinati agli intermediari dell’area dell’euro. Queste operazioni hanno contribuito a sostenere l’erogazione del credito alle famiglie e alle imprese e a ridurne il costo. Le emissioni obbligazionarie nette sui mercati internazionali, alle quali ricorrono prevalentemente le banche di grande dimensione, sono state complessivamente negative, dal 2011 a oggi, per 47 miliardi; l’incidenza delle obbligazioni sul totale della raccolta è scesa dall’11,5 al 9,5 per cento. Le difficoltà di accedere ai mercati internazionali sono tornate di recente ad accentuarsi con il riemergere di tensioni nel mercato dei titoli di Stato. Il rendimento richiesto dagli investitori sulle obbligazioni bancarie senior non garantite con scadenza a 5 anni è attualmente superiore di un punto percentuale a quello richiesto per le principali banche francesi e tedesche. Il sostegno dell’Eurosistema alla liquidità delle banche continuerà finché lo richiederà la situazione finanziaria dell’area. Il ripristino di condizioni di normale accesso ai mercati all’ingrosso è però necessario per il buon funzionamento dell’attività di intermediazione; contribuirà anche a contenere i costi che le banche medio-grandi dovranno sostenere per costituire il “cuscinetto” di passività in grado di assorbire le perdite previsto dalle nuove regole europee per la gestione delle crisi. Nel corso di quest’anno il Comitato di risoluzione unico fisserà un obiettivo MREL vincolante per la maggior parte dei gruppi bancari significativi italiani, prevedendo, se opportuno, un adeguato periodo transitorio per il raggiungimento dello stesso.

Nella discussione che ha condotto, alla fine dello scorso anno, all’accordo sul cosiddetto “pacchetto bancario” (che prevede l’aggiornamento della disciplina sui requisiti prudenziali e rivede i criteri per la fissazione del MREL) abbiamo più volte rimarcato la necessità di contemperare l’esigenza di assicurare adeguati volumi di passività utilizzabili in caso di risoluzione con quella di far sì che la loro emissione avvenga in modo graduale e ordinato, evitando ripercussioni sul finanziamento dell’economia. La possibilità di accedere alla procedura di risoluzione, pur con le concrete difficoltà di attuazione del bail-in, è comunque prevista solo per le banche – di maggiori dimensioni – per le quali si rilevi un interesse pubblico tale da giustificare il ricorso alle risorse del Fondo di risoluzione unico. Nel caso di crisi di intermediari di minori dimensioni, un ordinato processo di liquidazione potrà aver luogo solo in corrispondenza di un intervento rapido e generalizzato di un intermediario interessato all’acquisizione di attività e passività. In assenza di un tale intervento, non vi sarebbero alternative alla procedura di liquidazione ordinaria (o “atomistica”). L’operare di questa procedura, oltre a distruggere valore, può compromettere la continuità dell’offerta di servizi essenziali a livello locale, con possibili fenomeni di contagio a più ampio raggio. Ritengo necessario tornare a riflettere in ambito europeo, anche sulla base dell’esperienza della FDIC (Federal Deposit Insurance Corporation) statunitense, su istituti e misure che mirino a rendere meno traumatica e meno costosa possibile l’uscita dal mercato degli intermediari di minore dimensione.

Per le banche italiane proseguire sulla strada del rafforzamento dei bilanci e del recupero di adeguati livelli di efficienza e di redditività resta condizione necessaria per affrontare le sfide che caratterizzano il settore finanziario a livello globale. Maggiori risorse sono richieste per far fronte ai costi di una compliance il cui ambito si è significativamente esteso negli anni recenti e sul cui quadro normativo occorre continuare a lavorare per accrescerne la proporzionalità. Sono necessari investimenti per sfruttare le tecnologie digitali al fine di migliorare l’offerta di servizi alla clientela. Per sostenere la crescita e per rendere più efficiente l’allocazione delle risorse abbiamo bisogno di un sistema finanziario più articolato. Le esigenze finanziarie delle imprese innovative e attive a livello internazionale non possono essere soddisfatte solo dalle banche. Nonostante i progressi compiuti negli ultimi anni il ruolo del mercato dei capitali è ancora troppo limitato, anche nel confronto con le altre grandi economie dell’Europa continentale. Occorre proseguire nelle politiche di sostegno allo sviluppo delle fonti non bancarie di finanziamento delle imprese. Le banche possono accompagnare e trarre beneficio da questi sviluppi ampliando e innovando la gamma di servizi offerti. La sfida più importante, in prospettiva, è quella della tecnologia che abbatte drasticamente i costi di trasmissione, elaborazione e archiviazione delle informazioni e spinge verso nuove forme di intermediazione delle transazioni finanziarie.

Intere filiere all’interno dell’industria finanziaria, dai servizi di pagamento all’offerta di credito, dalla negoziazione di titoli alla gestione dei rischi, sono già interessate, in alcuni paesi in modo significativo, dalla digitalizzazione e dalla rapida crescita della quota di mercato di soggetti non bancari (FinTech). Ulteriori pressioni competitive arriveranno dalle imprese globali, alla frontiera dell’innovazione tecnologica (tra cui le cosiddette “Big Tech”), che possono sfruttare la loro presenza su mercati molto ampi. Le autorità devono assicurare ai nuovi intermediari una forma adeguata di supervisione, che tenga conto delle loro potenzialità e dei rischi connessi con la loro attività. Devono in particolare stimolare sia le società FinTech sia le banche a porre la dovuta attenzione alle possibili conseguenze negative di attacchi informatici in un sistema ormai immerso nella tecnologia digitale. Siamo impegnati, a fianco delle altre autorità e degli intermediari, nello sforzo di mantenere la sicurezza informatica del settore finanziario. Abbiamo anche adeguato l’organizzazione della funzione di Vigilanza con la creazione di strutture dedicate all’analisi delle iniziative FinTech, con l’obiettivo di anticipare gli sviluppi di mercato e di aggiornare metodi e strumenti di intervento.

Le prospettive dell’economia italiana sono oggi meno favorevoli di un anno fa. Sono gravate da rischi al ribasso che hanno in parte origine estera, ma che continuano a riflettere in misura significativa le debolezze proprie del nostro paese, in primo luogo l’incertezza sulla crescita, oltre che sull’orientamento della politica di bilancio e sulla ripresa di un percorso credibile di riduzione del peso del debito pubblico sull’economia. Un premio elevato per il rischio sovrano aggrava lo squilibrio dei conti pubblici, pregiudica la capacità della politica di bilancio di sostenere l’economia, comprime le risorse disponibili per gli investimenti in infrastrutture. La diminuzione del valore dei titoli di Stato incide negativamente sui risparmi accumulati dalle famiglie e determina perdite in conto capitale per gli investitori istituzionali, quali assicurazioni e fondi pensione, e per le banche, ripercuotendosi sulle loro condizioni di finanziamento sui mercati; ne risente la capacità degli intermediari di fornire credito al settore privato e sostenere, per questa via, l’attività produttiva. L’innesco di questo circolo vizioso è frenato dalla durata media relativamente elevata del debito pubblico, dalle condizioni espansive della politica monetaria, dai livelli di patrimonializzazione degli istituti di credito. Si tratta di fattori favorevoli che possono però risultare insufficienti in presenza di movimenti repentini dei mercati finanziari, un rischio che abbiamo già sperimentato in passato.

Questo rischio va evitato tenendo alta l’attenzione all’equilibrio dei conti pubblici – nel breve come nel lungo periodo – e attuando con decisione un disegno organico di riforme volte a preservare la fiducia dei risparmiatori e a riguadagnare quella degli investitori. L’obiettivo ultimo, da conseguire con continuità e determinazione, non può che essere quello di uno stabile ritorno su un sentiero di sviluppo economico e sociale.

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