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“Una storia senza nome”: il giallo di Andò tra Caravaggio e mafia

Il nuovo film di Roberto Andò con Micaela Ramazzotti e Alessandro Gassmann racconta la storia del furto della Natività del Caravaggio, avvenuto a Palermo nel 1969 – Un mistero in cui si intrecciano pentiti della malavita, servizi segreti e trattative più o meno istituzionali.

“Una storia senza nome”: il giallo di Andò tra Caravaggio e mafia

Giudizio dell’autore: 3 stelle su cinque

Un film nel film dove si mescolano arte, cinema e politica: questa, in sintesi, la trama della pellicola che proponiamo questa settimana. Si tratta di Una storia senza nome, di Roberto Andò, presentato fuori concorso al recente Festival di Venezia, con un’ottima Micaela Ramazzotti protagonista. La vicenda narrata è realmente avvenuta e fa parte del ciclo “grandi misteri italiani” dei quali difficilmente sapremo mai qualcosa. Nel 1969 a Palermo viene rubata una tela del Caravaggio di rilevante valore artistico ed economico. Da allora il quadro sparisce nei meandri degli intrighi nazionali dove, al primo posto, compare la mafia, che potrebbe essere stata allo stesso tempo il committente, il beneficiario, l’utilizzatore, l’intermediario, il venditore e l’acquirente del prezioso dipinto. Tuttora nessuno è in grado di affermare con certezza che fine potrebbe aver fatto e addirittura si sospetta che possa essere stato fatto a pezzi e venduto in singole parti, come pure potrebbe essere finito in pasto ai maiali. La sola cosa certa è che la storia si è intrecciata costantemente in losche e oscure vicende di servizi segreti, di trattative più o meno istituzionali (“secondo le agenzie di rating, il ritrovamento del quadro potrebbe far salire le posizioni economiche dell’Italia da AAA negativo a AAA positivo” si dice nel film), di personaggi realmente viventi, i pentiti di mafia, che spesso e volentieri hanno tirato in ballo la tela del Caravaggio.

Raccontare tutto questo in chiave di cronaca, di descrizione didascalica di quanto noto e realmente avvenuto, sarebbe stato obiettivamente complesso e di non facile interpretazione, non foss’altro perché “ignoto l’autore del delitto” e scomparso l’oggetto del reato. Ecco, forse, perché gli sceneggiatori hanno scelto di raccontare la vicenda collocandola all’interno dei meccanismi della produzione cinematografica. Ci troviamo, infatti, negli uffici di una casa di produzione dove lavora Valeria come segretaria ma, in realtà, come ghost writer per conto dello sceneggiatore ufficiale (il solito Alessandro Gassmann, senza infamia e senza lode). Viene contattata da un personaggio misterioso che la condurrà diretta all’interno della storia, con un mescolamento continuo tra la parte verosimile e quella che si vorrebbe raccontare nel film dove lei stessa scrive la sceneggiatura su ispirazione della persona che la guida dietro le quinte degli avvenimenti.

Roberto Andò è bravo nel tenere la conduzione di una regia tesa ed equilibrata nei tempi e nei contesti di riferimento storici e politici. Buon sangue non mente: viene da una scuola di collaudata qualità. È stato collaboratore di Leonardo Sciascia, di Federico Fellini, di Michael Cimino ed altri grandi registi. Gli attori pure rispondono bene ai ruoli assegnati e tutta la pellicola scorre in modo piacevole, anche se spesso indugia in complicazioni eccessive. Si avverte però spesso una certa somiglianza ai moduli narrativi tipici della televisione: sequenze, inquadrature, luci e colori più affini al piccolo che al grande schermo. Però ci sembra doveroso cogliere un importante punto a vantaggio di questo film: appartiene ad un modulo diverso, ad un tentativo ben riuscito di fare cinema – italiano – che non appartiene ai generi ormai abusati della commedia contemporanea. Forse, un film di questo genere potrebbe avere anche un pubblico al di fuori dei confini nazionali.

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