Condividi

Trump ha perso la faccia, illusioni sovraniste in frantumi

Mettendosi contro l’intero sistema americano e fomentando la rivolta, il 6 gennaio Trump si è impiccato con le sue mani – Ma il suo disastro affonda anche le pericolose illusioni sovraniste, suggerite inizialmente da Bannon e enfatizzate da Salvini & Company

Trump ha perso la faccia, illusioni sovraniste in frantumi

A Washington è finita come doveva finire, in pieno stile Trump, cioè da repubblica delle banane, come il 6 gennaio hanno dichiarato anche un ex presidente e molti altri, compresi vari senatori repubblicani. Ed è finita con quattro morti, fra gli attaccanti del Campidoglio. In 16 minuti e 1.433 parole Donald Trump silurava, assumendo la presidenza il 20 gennaio 2017, oltre 70 anni di diplomazia americana e gettava una totale incognita sulla politica interna, promettendo la Luna. Coautore dello storico testo l’ineffabile Steve Bannon che presto, cacciato dall’umorale Trump, avrebbe cercato di diventare il mentore dei sovranisti europei in genere ed italiani in particolare, da questi trattato con riverenza. Qualche sprovveduto nostrano in veste accademica arrivò anche a scrivere un libro, livre de chevet di Matteo Salvini, che gonfiava a dismisura gli inevitabili cambiamenti della strategia americana già in atto del resto da 15 anni almeno e pronosticava al fianco di Trump un grande ruolo del sovranismo italiano, con Salvini a Palazzo Chigi naturalmente.

In 20 giorni di totale irresponsabilità presidenziale e di completa umana stupidità Trump ha distrutto tutto, a partire dalla propria immagine o di quanto ne restava. Incominciando con un tweet da Natale di guerra del 19 dicembre in cui annunciava “Big protest in DC on January 6th” e raccomandava “Be there, will be wild”: grande manifestazione di protesta a Washington il 6 gennaio, non mancate, cose selvagge. Il tutto passando poi da una serie di altri analoghi messaggi, una incredibile lunga telefonata minatoria ai vertici repubblicani dello Stato della Georgia accusati e minacciati perché non trovavano i presunti brogli elettorali, e alle gravissime parole pronunciate il 6, un incitamento alla sommossa (“Non ci arrenderemo mai. Il nostro Paese ne ha abbastanza. Non sopporteremo più”) parlando davanti a circa 3mila persone fra cui bande organizzate e violente come i Proud Boys, poco prima che verso le 13 the mob, la folla male intenzionata e sobillata, incominciasse a muoversi verso il Congresso. Lo prendevano d’assalto, con gli uomini della sicurezza che hanno anche sparato per fermare l’accesso violento alle aule di Camera e Senato. Saranno gli storici a valutare i molti errori e le scelte utili (statisticamente qualcuna ci deve pur essere) che Trump ha fatto. Ma il penultimo errore, il rifiuto della sconfitta elettorale del 3 Novembre, è enorme, e l’ultimo, l’incitamento alla rivolta, inaudito.

L’obiettivo immediato della violenza era sostenere con uno show muscolare quei circa 100 deputati e quella dozzina di senatori, repubblicani, pronti a contestare il voto in sei o sette Stati (Georgia, Pennsylvania e Arizona in prima fila), dove Biden ha vinto per margini risicati, come del resto Trump aveva vinto con margini analoghi in Wisconsin, Michigan e altrove nel 2016. La procedura adottata 150 anni fa prevede che se un senatore e un deputato obiettano congiuntamente il Congresso deve discutere il caso e decidere se accettare la certificazione del voto fornita da ogni Stato o no. Dati i numeri, la sconfitta del tentativo era certa. E ugualmente il vicepresidente Mike Pence, dopo giorni di fortissime pressioni perché esercitasse inesistenti poteri per modificare il voto popolare (il vicepresidente è anche presidente del Senato), dichiarava per iscritto che tali poteri non esistono.

Trump si è impiccato con le sue stesse mani perché le immagini del 6 gennaio sono entrate brutalmente nella Storia nazionale americana e vi resteranno per sempre. Come le registrazioni della voce di un presidente che incita alla rivolta. E che poi, spinto a questo dai suoi più stretti collaboratori che dopo poche ore si sarebbero dimessi in gran numero, ha invitato ambiguamente alla calma (“tornate a casa”) ma guardandosi bene dal condannare l’accaduto, anzi implicitamente elogiandolo, e ripetendo la versione senza prove del “voto fraudolento”. Trump si è messo contro l’intero sistema americano, e inevitabilmente ha perso, e male.

Che succede ora? Aiuta a capirlo il caso del deputato Mo Brooks dell’Alabama, uno dei 100 circa pronti a contestare i voti, trumpiano di ferro e che ha parlato di prima mattina sul palco dal quale, vicino alla Casa Bianca, Trump avrebbe arringato più tardi. “Oggi è il giorno in cui i patrioti americani incominciano a prendere nota dei nomi (dei traditori, ndr) e a menare calci in culo”. Così Brooks in tenuta da combattimento e cappellino rosso d’ordinanza concludeva la sua infiammata arringa, piena di riferimenti alla rivolta del 1776. Poi si cambiava, andava alla Camera, e con una serie di tweet informava sull’arrivo dei boys, per concludere però con un ultimo messaggio di tono ben diverso. “Quale forte sostenitore di Legge e Ordine, spero che chiunque ha illegalmente invaso il Campidoglio sia perseguito con la piena severità della legge… Un gesto insensato. Non fa nulla di produttivo”.

Sarà difficile per Trump imitare il suo deputato e cercare di sfuggire alle responsabilità. La sua presidenza si chiude con un disastro, una triplice sconfitta fatta subire al partito repubblicano, con degno simbolo plastico e animato il suo “popolo” in maschera nelle aule del Congresso. Ha perso la Casa Bianca, non ha riconquistato la Camera persa nelle midterm del 2018 e ora ha perso il Senato, perché la sua insensata campagna contro le “frodi” e l’attacco frontale ai “deboli” repubblicani della Georgia ha portato alla sconfitta repubblicana nelle due supplettive di quello Stato per il Senato di Washington, regalando così sia pure per un solo voto la maggioranza ai democratici, fatto fondamentale per il prossimo governo di Joe Biden. Dopo i disordini Mike Pence ha dichiarato in modo definitivo la vittoria di Joe Biden. E Trump, per la prima volta, l’ha accettata. Pochissime ore prima dichiarava “non lo faremo mai”.

Sarebbe utile vedere, per sommi capi, come mai un Paese di solida e lunga esperienza democratica sia arrivato al 6 gennaio 2021 di Washington, e prima a un Donald Trump. Le ragioni in parte ci sono, tra queste le mancate promesse di chi l’ha preceduto, e la radicalizzazione del sistema. Lo faremo un’altra volta, se sarà il caso. Intanto il 6 gennaio 2021 resterà probabilmente come significativo antidoto contro le illusioni pericolose. Un antidoto, dato il peso specifico della democrazia americana nel mondo, valido anche per noi.

Commenta