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Transizione ecologica: chi la paga?

Uno studio del Boston Consulting Group per il World Economic Forum sottolinea l’importanza, per le grandi imprese, di coinvolgere nella decarbonizzazione anche la filiera di fornitura, che è responsabile di metà delle emissioni di CO2. L’aumento dei prezzi al consumatore è stimato tra l’1 e il 4%.

Transizione ecologica: chi la paga?

Rendere la nostra economia più sostenibile e salvaguardare il pianeta dal riscaldamento globale sono due sfide collegate e irrinunciabili, soprattutto adesso che il Covid ha rallentato le catene di produzione, mettendo in crisi le imprese ma allo stesso tempo offrendo un’opportunità imperdibile di rinnovamento. La decarbonizzazione, quanto delle imprese quanto soprattutto della supply chain, cioè della filiera di fornitura, ha un costo: in parte questo viene assorbito dalle aziende stesse con gli investimenti, in parte viene coperto da finanziamenti pubblici (il Recovery Fund è lì anche per questo), ma in parte ricadrà sui consumatori, cioè su tutti noi. A quantificare questo aspetto molto spesso sottovalutato della transizione ecologica è il report Net-Zero Challenge: The Supply Chain Opportunity” realizzato da Boston Consulting Group per il World Economic Forum: gli ambiziosi obiettivi di decarbonizzazione comportano un aumento dei prezzi sui consumatori che viene stimato fra l’1 e il 4%.

Una sorta di inflazione aggiuntiva, che tuttavia il Boston Consulting Group ritiene dal suo punto di vista “relativamente contenuta, tale da non pregiudicare la competitività dell’impresa”. Anche perché, sostiene sempre il BCG, gli strumenti per azzerare le emissioni delle catene di produzione sono già in gran parte disponibili per le imprese “che, con un’adeguata strategia, possono superare gli ostacoli (aumento dei costi, inerzia dei governi, concorrenza sleale di rivali inquinanti, mancanza di dati affidabili) per trasformarli persino in vantaggio competitivo”. “L’opportunità che ci viene offerta di ‘ricreare’ il mondo post pandemia è assolutamente da non perdere”, commenta Laura Alice Villani, Managing Director e Partner di BCG e responsabile per la practice Energy in Italia. “Le grandi aziende possono diventarne protagoniste, sostenendo i propri fornitori in questa fase”. E’ noto infatti gli impianti delle grandi aziende e l’energia per alimentarli hanno un peso significativo sulla quantità di CO2 immessa nell’ambiente, ma tutto il resto delle emissioni è frutto dell’attività del loro fornitori.

Per il BCG insomma le soluzioni a favore dell’ambiente sono sostenibili anche economicamente, quanto meno in larga parte. La decarbonizzazione totale infatti potrebbe ricadere molto di più sui consumatori, ma lo studio spiega che “il 40% delle emissioni potrebbe essere abbattuto con misure che consentono addirittura risparmi o che comportano un dispendio inferiore ai 10 euro per tonnellata di Co2 eliminata. L’onere salirebbe invece fra i 10 e i 100 euro a tonnellata per un’ulteriore riduzione del 40%, a causa del costo delle tecnologie che però potrebbe rapidamente scendere in caso di adozione su ampia scala”. Secondo il lavoro del BCG, le materie prime e i componenti rappresentano in definitiva una quota modesta del prezzo finale di un bene: per fare un paio di esempi, circa il 10% di un’auto, fra il 10 e il 20% di un paio di scarpe da tennis. Ecco perché l’impatto finale sui prezzi al consumatore di una sufficiente decarbonizzazione sarebbe appunto tra l’1 e il 4%.

Questo aumento è davvero così basso e digeribile dalla maggior parte dei consumatori globali? Il Boston Consulting Group su questo sembra ottimista e nel presentare il proprio lavoro sostiene che “anzi, sempre più consumatori sono disposti a pagare di più pur di avere un prodotto sostenibile, dalla culla alla tomba”. Quel prezzo da pagare in più è dunque attribuibile alla decarbonizzazione anche e soprattutto delle filiere di fornitura: lo studio individua quelle ad oggi meno sostenibili e sono le cosiddette big eights, cioè le 8 supply chain che da sole sono responsabili del 50% delle emissioni globali. Si tratta delle catene del Food, delle costruzioni, della moda, dei beni di largo consumo, dell’elettronica, dell’auto, degli uffici e del trasporto merci.

“Le barriere alla decarbonizzazione delle catene produttive – spiega ancora Villani – non sono soltanto di natura economica, ma anche informativa. Considerato che, al momento, le multinazionali fanno fatica a conoscere l’identità di tutte le migliaia di fornitori e subfornitori sparsi per il globo, diventa ancora più difficile per queste avere piena contezza delle emissioni di ognuno”. Il Boston Consulting ha così pensato ad una lista di suggerimenti per una strategia vincente su questo preciso fronte:

1.     Stabilire una linea di contenimento delle emissioni e assicurare trasparenza sui dati condivisi con i fornitori;
2.     Disegnare obiettivi complessivi di riduzione;
3.     Rivisitare i prodotti secondo criteri di sostenibilità;
4.     Disegnare la catena di valore riconsiderando le fonti di approvvigionamento anche dal punto di vista geografico;
5.     Integrare le metriche delle emissioni negli standard di approvvigionamento e monitorare le prestazioni;
6.     Lavorare con i fornitori per lavorare alla diminuzione delle loro emissioni;
7.     Impegnarsi in iniziative di settore per essere aggiornati sulle best practice e le certificazioni;
8.     Aumentare i “gruppi di acquisto” per ampliare gli impegni dal lato della domanda;
9.     Inserire una governance a basse emissioni, coordinare gli incentivi interni e responsabilizzare l’organizzazione.

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