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Terzi: “Si può ancora salvare l’euro? Sì, ma solo accelerando l’unità politica dell’Europa”

La liquidità allenta la pressione sulle banche ma non risolve la crisi del debito sovrano e la debolezza della moneta unica – Anche il rafforzamento del fondo salva-Stati non basta – L’unica strada risolutiva è quella dello sviluppo dell’unità politica dell’Europa federale – L’idea dei Mosler Bond: se ne parla a Dublino

La liquidità delle banche centrali allenta la pressione sulle banche ma non risolve la crisi del debito. E ogni aumento del fondo salva-stati serve solo a rimandare il redde rationem. Sembra che i leader Europei (se ne è rimasto qualcuno?) trovino difficile accettare l’idea che la crisi sia il frutto di una fragilità intrinseca dell’euro.  Ed è in parte comprensibile: perché prendersela con la moneta, quando è tanto più facile prendersela con i paesi indisciplinati? E l’euro non ha forse consegnato all’Europa una maggiore stabilità dei prezzi e dei tassi d’interesse? Perché dovrebbe essere proprio l’euro (prima ancora della dimensione del debito o della divergenza reale tra i paesi) la causa prima della tempesta di questi giorni?

In un articolo scritto alla vigilia dell’euro, lettura obbligatoria dei miei studenti ma stranamente poco ricordato in questi tempi, Charles Goodhart affermava che scindere la sovranità monetaria dallo stato (come fa la moneta unica europea) è una scommessa azzardata: l’euro senza unità politica sarebbe stato non la moneta degli europei, ma la moneta straniera di ciascun europeo.

Ed è puntualmente accaduto: la moneta unica ha ridotto ogni stato membro al rango di un ente regionale, come un qualsiasi stato americano. Anche negli Stati Uniti il dollaro è la moneta unica di molti (e diversi) stati, ma è governato da Washington. E nemmeno la crisi (tutta politica) del tetto del debito è riuscita a far aumentare i tassi sul debito federale. La musica non cambia se guardiamo al Giappone, dove il debito/pil è quasi doppio di quello italiano e i tassi d’interesse a lunga scadenza non si schiodano dall’1%.

L’Italia (e ogni altro paese euro) assomiglia di più alla Jefferson County in Alabama che in queste ore sta rinegoziando e ristrutturando il debito emesso per rifare le fognature. È la differenza fondamentale tra utilizzatori ed emittenti di moneta. Chi emette moneta deve attentamente calibrare il proprio disavanzo pubblico sullo stato dell’economia per non creare inflazione, ma non potrà mai trovarsi nell’impossibilità tecnica di pagare il debito. Né può permettersi di impedire al disavanzo di crescere nel mezzo di una crisi pesante come questa senza avviare la spirale depressiva già in atto in Grecia e ormai anche nel nostro paese.

I mercati se ne sono finalmente accorti e non intravedono scelte risolutive all’orizzonte. È sempre più evidente a una crescente platea di osservatori che la crisi del debito cosiddetto sovrano (che tanto sovrano non è) ha due soluzioni estreme: la dissoluzione della moneta unica o una decisa accelerazione dell’Europa federale. La prima è considerata (per ora) politicamente ed economicamente insopportabile. Ma per la seconda non c’è tempo. Che fare?

La Germania non può salvare tutti, non solo perché ai tedeschi questa soluzione non piace, ma perché è tecnicamente impossibile, così come lo stato del Texas non può finanziare altri stati in crisi fiscale. La soluzione degli acquisti della BCE (l’unico luogo, non politico, dove risiede la sovranità monetaria europea) è invece tecnicamente ineccepibile. In effetti, se non fosse politicamente inaccettabile, Francoforte potrebbe annunciare di essere l’acquirente di ultima istanza del debito europeo e gli spread sparirebbero all’istante. Lo fa invece a piccole dosi mirate, chiedendo contestualmente ai governi un impegno credibile sul rientro nelle regole comuni. Ma che un organo non democraticamente eletto possa finire per commissariarne un altro che gode della legittimità democratica è un altro sintomo di quel deficit di democrazia di cui ha parlato sul Sole 24 Ore Guido Rossi.

L’altra condizione che ridurrebbe la pressione sul debito è una ripresa della crescita, che non arriverà dai programmi di austerità, né dagli Stati Uniti o dalla Cina. Il fatto è che un’area monetaria dove è assente una sovranità monetaria politica non può tecnicamente sopportare a lungo una recessione senza rischiare ciò che rischia l’euro oggi. Altre soluzioni per prendere tempo sono state proposte, e quasi tutte implicano sacrifici di sovranità e inevitabilmente incontrano veti politici: dalla proposta che la BCE finanzi l’EFSF che a sua volta acquisti il debito dei paesi che l’Europa giudica solventi, a quella, provocatoria, che la Germania acquisti i titoli italiani in cambio di Eni e Ferrovie.

Una proposta che invece non richiede cessioni di sovranità è quella dei Mosler bonds. Se ne parla oggi in un convegno a Dublino. Si tratta di titoli pubblici emessi con una clausola: in caso di default, i titoli in oggetto saranno accettati dallo stato emittente come mezzo di pagamento delle tasse. Questa semplice promessa sul valore a scadenza del titolo renderebbe il default puramente ipotetico. Un depositante che paga le imposte in banca acquisterebbe di fatto i titoli di stato in pancia alla banca per pagare le tasse. La clausola crea dunque una domanda di titoli pubblici il cui valore nominale (più cedola) è garantito dalla promessa dello stato emittente. Il dispositivo non appare in contrasto con l’art. 128 del Trattato, riduce lo spread sul debito, concede all’Europa lo spazio politico per decidere tra le opzioni rimaste senza il fiato sul collo degli spread. E potrebbe rendere più credibili le operazioni di risanamento che oggi assomigliano a missioni impossibili a causa degli spread che si mangiano immediatamente gran parte dei sacrifici fiscali dei paesi più colpiti.

Ridurre gli spread è l’emergenza, e non solo in prospettiva del costo del debito pubblico ma per le gravissime ripercussioni sulle banche e sull’economia reale, come vediamo i questi giorni. Ma naturalmente non basta per salvare l’euro, che potrà sopravvivere solo con decisioni coraggiose che ripristino i principi di funzionamento di un’economia monetaria. Come accade negli Stati Uniti.

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