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Sapelli: “Elogio della piccola impresa”

E’ uscito in questi giorni per Il Mulino “Elogio della piccola impresa”, il nuovo saggio di Giulio Sapelli, storico dell’economia all’Università Statale di Milano – Ne pubblichiamo l’introduzione, per gentile concessione della casa editrice.

Sapelli: “Elogio della piccola impresa”

La scelta compiuta in questo libro è quella di affrontare il tema della piccola impresa in Italia, su cui vi è un’ampia discussione, intendendo tale impresa come componente essenziale della società civile e distinguendola dalle forme del lavoro autonomo comunemente inteso. Le piccole imprese e le imprese artigiane, che definirò qui di seguito, altro non sono che una parte della foresta industriale e dei servizi che dà forma al settore manifatturiero italiano a fianco delle grandi e delle medie imprese; costrutti sociali, questi ultimi, profondamente diversi dalle imprese piccole e artigiane e altresì dal lavoro autonomo, che si esercita con la proprietà dei mezzi di produzione ma senza essere datori di lavoro e che quindi impresa non è.

Penso sia essenziale, in questa sede introduttiva a un testo che è il frutto di non poche fatiche, che io enunci chiaramente quale sia la tesi interpretativa proposta e che trovo altresì bene espressa nelle interviste da me costruite con una serie di piccolissimi e piccoli imprenditori che ritengo rappresentativi, in senso qualitativo, del mondo culturale dell’impresa oggetto di studio.

Esiste indubbiamente un potente e variegato lavoro di ricerca analitica sulla piccola impresa in Italia. L’esponente più fecondo, a parer mio, di questa felice volontà analitica è senza dubbio alcuno Andrea Colli, il quale, nei suoi bei lavori, ha efficacemente descritto e offerto uno schema analitico alla ricerca storiografica su questa tipologia di impresa.

La mia tesi sottolinea – assai diversamente da tutte le altre interpretazioni – il carattere costitutivamente pre-economico, sociale, antropologico, della piccolissima e piccola impresa. Più che un attore economico, essa è un testimone vivente del passato agrario e della mobilità sociale ascendente delle classi non agiate della società, nel senso in cui intendeva questo processo Theodor Geiger. Essa ha naturalmente degli strumenti di regolazione di tipo economico della logica razionale e strumentale che non può non possedere operando in una società capitalistica, ed è sovradeterminata, quindi, dal raggiungimento del profitto. Ma sono il modo, il contesto, le forme relazionali con cui raggiunge questo profitto e costruisce quella stessa logica strumentale che fanno sì che essa sia profondamente diversa dalla media e dalla grande impresa.

La mia tesi, infatti, è che la piccolissima impresa, l’impresa artigiana, sia più vicina a una comunità che a una società organica. Tönnies viene prima di Durkheim e la differenza di ruolo che fonda la divisione sociale moderna in essa non è presente se non in minima parte: quella che consente a questo specialissimo costrutto sociale di vincere la competizione, di vivere e di sopravvivere. Ma è la solidarietà meccanica che fa premio su tutto: è l’essere continuità della famiglia come oikos, come unità economica e biologica insieme; e tutto ciò – che altro non è che antropologia – crea la sua specificità, la specificità della piccolissima e piccola impresa, dell’impresa artigiana. Vado oltre. Affermo che tutto questo è la ragione del suo successo e non, come fanno i più, della sua mortalità.

Quante imprese grandi sono morte e quante medie stentano a vivere come a morire? Questa sconosciuta forma d’impresa vive e continua a vivere e a crescere come rappresentazione della quantità di stelle che il firmamento economico, in tutto il mondo, possiede, come ho dimostrato in un mio lavoro più generale di questo che qui presento. Essa si fonda sulla persona e quindi sulla fiducia, sull’inesauribile flessibilità di cui persone e famiglie sono capaci pur tra mille errori. E questo perché esiste volta a volta una sorta di omeostasi con il mercato e la politica insieme che il nostro costrutto sociale forma e riforma tra economia e mondi vitali. Per questo non cresce. Perché essa si costituisce prima e fuori dal mercato. Nel mercato agisce, certo, ma da esso si difende se si attenta alla sua costitutività personale e familiare: vuole conservare se stessa. Certo può crescere, ma allora piccolissima impresa artigiana o piccola impresa non è più. È altra cosa, altro costrutto economico-sociale. Diviene fondato sul ruolo, sulla prevalenza della delega e quindi di un ordine di ruoli indipendenti dalle persone, come ci ha insegnato Alfred Marshall nelle sue geniali opere preveggenti. Per questo il mio libro si colloca fuori dalla vulgata prevalente. Nobile e ispirata da buoni propositi ma lontana dalla realtà e dalla scienza. Non è necessario crescere per vivere e per fare profitti e neppure la globalizzazione nella crisi mondiale confuta tale mia tesi. Anzi, il fatto che questa specifica forma sociale continui a vivere e operare nell’interdipendenza delle economie e delle tecnologie mutando per quel che a essa serve per sopravvivere, dimostra che è in questa alterità che risiede il segreto della vitalità dell’impresa artigiana e piccola rispetto alle altre forme di vita delle popolazioni organizzative che in guise molteplici costituiscono i batteri vitali dei liquidi amniotici del moderno capitalismo. Di vita, di vita sociale, infatti, si tratta. Nonostante tutte le terribili crisi. Di ciò in questo libro si parlerà.

Seguo, in questo assunto che interpreta l’impresa come elemento fondante della società civile, l’insegnamento di Adam Ferguson, filosofo e storico scozzese del Settecento, ritenuto comunemente uno dei padri fondatori della sociologia economica. Il suo An Essay on the History of Civil Society, del 1767, rimane un punto di riferimento ineludibile. Gli uomini pervengono allo stadio della «società civile» grazie al sorgere dell’agricoltura, che determina la nascita delle leggi: infatti, alla nascita dell’agricoltura segue quella della proprietà privata, la quale dalle leggi viene protetta. Da questo intreccio tra proprietà e legge scaturisce l’impresa moderna grazie all’azione personale dell’imprenditore. La società civile è la rete di relazioni sociali che si dipanano a partire dalla costituzione della proprietà privata, di cui l’impresa è la manifestazione sociale dal punto di vista organizzativo. Il piccolo imprenditore è in primo luogo, quindi, proprietario dei suoi mezzi di produzione e creatore di rapporti gerarchici contrattuali, quale che sia la scala dimensionale degli stessi, ed è a partire da questo intreccio tra proprietà e facoltà di organizzare le tecniche e le capacità personali subordinate che l’imprenditore rende manifesta la sua personalità e trova la sua collocazione sociale.

Il Codice Civile italiano è molto chiaro a questo proposito: Art. 2082 – È imprenditore chi esercita professionalmente un’attività economica organizzata (artt. 2555, 2565) al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi (artt. 2135, 2195).

Art. 2083 – Sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo (artt. 1647, 2139), gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia (artt. 2202, 2214, 2221).

A questi riferimenti civilistici va aggiunto il richiamo all’art. 230-bis che regola l’impresa familiare, la quale si crea ogniqualvolta un familiare dell’imprenditore presti la sua opera in maniera continuativa nella famiglia o nella stessa impresa. L’impresa familiare riceve, infatti, per la prima volta tutela nel 1975 con la riforma del diritto di famiglia. Ciò che è essenziale è comprendere la differenza, che molto spesso non è evidente, tra imprenditore e lavoratore autonomo. Il lavoro autonomo è definito dall’art. 2222 del Codice Civile, che indica quale lavoratore autonomo colui che si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio, con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei confronti del committente. A differenza del lavoratore subordinato, il lavoratore autonomo assume un’obbligazione di risultato e non di mezzi: egli, cioè, non si obbliga a mettere a disposizione la propria forza lavoro per un determinato tempo, ma garantisce il raggiungimento di determinati risultati. Conseguenza di diversa natura è che il lavoratore autonomo svolge la propria attività con mezzi prevalentemente propri e non del committente, e con piena discrezionalità circa il tempo, il luogo e le modalità della prestazione. Non ha, dunque, vincoli di subordinazione nei confronti del committente, il quale non ha i poteri direttivi, di controllo e disciplinari tipici del datore di lavoro subordinato. In ogni caso il prestatore di lavoro autonomo può essere obbligato al rispetto dei limiti e delle condizioni contenute nel contratto. Per il fatto di possedere i propri mezzi di produzione il lavoratore autonomo ha spiccate rassomiglianze con l’imprenditore piccolo o piccolissimo, ma rimane la rassomiglianza e non l’identità perché a esso manca la natura organizzativa delle funzioni dell’impresa, che costituiscono specificamente e distintivamente quest’ultima rispetto a tutte le altre forme di manifestazione dell’attività umana.

Fare questa sottolineatura è importante ovunque, ma in primo luogo in Italia. Il nostro paese, infatti, ha un altissimo numero di imprenditori. Se, nel 2010, si definivano imprenditori solo coloro che avevano alle loro dipendenze più di due lavoratori, di essi se ne contavano in Italia 257.000. Ma se si comprendono nella categoria di imprenditori, invece, coloro che occupano alle loro dipendenze anche un solo lavoratore, si giunge, nello stesso anno, a considerare imprenditori ben 1.524.000 persone, ampliando la platea di questa classe sociale in modo straordinario. Il lavoro indipendente individuale, nel mentre, sempre alla stessa data, contava 3.800.000 persone, contribuendo a fare dell’Italia un paese in cui il lavoro autonomo o indipendente propriamente inteso, si appartenga o meno alla piccola borghesia proprietaria, caratterizza profondamente la struttura sociale del paese. La recentissima rielaborazione dei dati ISTAT compiuta da Ivana Fellini in merito alla «composizione degli occupati per posizione nella professione (percentuali del 2010)», da cui cito le cifre qui richiamate, ci dice che degli «occupati complessivi» il 74,8% si annovera tra i dipendenti, mentre gli indipendenti sono il 25,2%, cifra composta da: imprenditori l’1,1%; liberi professionisti il 5,2%; lavoratori in proprio il 15,3%; soci di cooperativa lo 0,2%; coadiuvanti familiari l’1,6%; collaboratori l’1,4%; prestatori d’opera occasionali lo 0,4%. Si noterà immediatamente che vi è, dunque, un’area di continua trasmigrazione tra lavoro autonomo e in proprio, da un lato, e lavoro imprenditoriale, dall’altro, e che quindi tutte le convenzioni statistiche sono essenziali se si vuol dare una valutazione quantitativa alla dimensione sociale della piccola impresa e della piccola borghesia che la possiede e la dirige. In questo lavoro mi atterrò strettamente all’ambito che ho sopra definito come piccola impresa e impresa artigiana per interpretare e far comprendere l’essenza del fenomeno.

È proprio per un’esigenza di maggiore comprensione che ho voluto inserire in questo lavoro, sì descrittivo, ma con forti valenze interpretative, alcuni brani di interviste cui facevo cenno all’inizio. È necessario, per avere piena contezza del mondo imprenditoriale che qui abbiamo evocato, partire, appunto, dall’universo simbolico della persona imprenditore. Ho cercato di farlo in forma induttiva, ossia riportando, attraverso brani discorsivi, quelli che a parer mio sono i significati più salienti che possono essere tratti delle interviste medesime, cercando di non perdere nulla del carattere colloquiale di questo documento etnografico che io giudico importante per completare il mio studio con un grado di significatività adeguato all’argomento.

Mi si lasci dire, infine, che i testi parlano veramente da sé e che ogni commento da parte mia sarebbe stato veramente superfluo. L’insegnamento che ho tratto da questo lavoro etnografico e che spero traggano anche coloro che leggeranno questo libro è l’alto grado di autoriflessività, di autoconsapevolezza e di cultura, non solo industriale, che i protagonisti del mondo delle piccolissime e piccole imprese posseggono e di cui vi è troppo poca contezza.Se tale contezza vi fosse in misura adeguata tra i decisori politici, certamente il peso istituzionale di questo mondo potrebbe positivamente influenzare, ben più di quanto oggi non accada, il destino del nostro paese.

Dopo lunghi anni di lavoro come ricercatore, formatore e independent director nella grande impresa in Italia e all’estero in continuità con il mio impegno universitario, solo da un quindicennio mi occupo di piccola impresa, soprattutto scrivendone e conoscendola «sul terreno». Pensavo che fosse troppo presto per cimentarmi in un lavoro così direttamente specifico. Alessia Graziano del Mulino mi disse che avrei potuto scrivere per la casa editrice bolognese un libro sulla piccola impresa; ed è quindi la prima persona che debbo ringraziare.Ma qualche seme era già stato gettato nel campo del mio percorso culturale. Una svolta nella mia formazione intellettuale, infatti, avvenne grazie all’opportunità che Gianfranco Origgi mi offrì di studiare etnograficamente una piccola impresa condividendone per mesi il lavoro quotidiano di tutti i suoi attori. Da quell’esperienza sortì il mio Persona e impresa. Un caso di etnografia aziendale: Pino Varchetta e Francesco Novara (il mio compianto – con Franco Momigliano – maestro olivettiano) ne scrissero e ne dissero così bene che fui incoraggiato a proseguire le mie riflessioni.

Ma è Cesare Fumagalli che, in questi anni di scoperta di un nuovo mondo, con i «suoi» artigiani, è stato il mio Virgilio e di questo non lo ringrazierò mai abbastanza, oltre che per l’umanità e la saggezza di cui ha infuso il suo insegnamento.

Infine, questo libro non sarebbe stato scritto senza il grande lavoro, che va accademicamente riconosciuto, di Luigi Vergallo, al quale si deve il terzo capitolo.

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