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Salvator Dalì, principe clown della pittura moderna

E’ sempre più difficile trovare capolavori di Dalì nel mercato, ormai sempre più custoditi nei più grandi musei del mondo e in collezioni importanti. Eppure la sua arte desta sempre interesse al collezionismo, al punto tale da attendere sempre che compaiano opere magari meno importanti tra cui, tele, disegni, incisioni, un po’ come il titolo dell’opera “persistenza della memoria”, che ci appare quasi “liquefatta” ma ossessionatamente presente.

Salvator Dalì, principe clown della pittura moderna

Eccentrico o antinormale, ecco come spesso veniva definitò Salvator Felipe Jacinto Dalì, meglio conosciuto solo come Dalì. Nato nel 1904 nella cittadina spagnola di Figueras, non lontana dal confine francese. La sua nascita lo ha sempre ossessionato, al punto di dire che era nato due mesi prima, definendo la sua vita di sette mesi dentro al feto come un paradiso. Forse per questo amava dipingere uova o forme comunque ovali come era il suo soggiorno di casa sua. 

Il periodo scolastico non fu brillante, l’unica materia in cui andava bene era l’arte, meglio un arte che si era addossato, ossia quella dello spettacolo. Amava esibirsi in gesta estreme, come buttarsi dalle scale, cercando l’acclamazione di chi lo ammirava per questa sorta di esibizione. Tra una esibizione e un’altra si ritirava in casa, dove passava ore dentro alla tinozza nella stanza della lavanderia. 
A sette anni sapeva già dipingere e ben presto cominciò a dedicarsi alla pittura su tela. Diversi anni dopo, si iscrisse al liceo artistico di Madrid, ed è qui che si fece notare per la sua personalità. Capelli lunghi, cappello nero a larghe falde e un bastone con il pomo d’argento, questa la sua divisa per entrare in classe. Non si tirava indietro nemmeno per protestare contro alcuni professori, al punto che fu anche portato nel “calabozo” o meglio in gattabuia fino ad essere espulso definitivamente dalla scuola.

Nel periodo tra gli anni ’20 e ’30 amava dedicarsi alla pittura cubista, divisionista e impressionista. nel 1925 tenne la sua personale Barcellona, la prima di una infinita serie di mostre. Giunto a Parigi nel 1927, consigliato da Picasso, espose delle tele paragonabili a dei veri “incubi fantastici” e scoprì che quel modo di dipingere poteva essere adottato dalla nuova corrente artistica: il Surrealismo.

Come ben sappiamo il modo di pensare dei surrealisti, voleva dimostrarsi come un “buttare” a mare tutto ciò che rappresentava la tradizione, meglio se muniti di acchiappa farfalle di una fantasia freudiana. Per loro il disordine era pura organizzazione, ricordiamoci che furono loro a promuovere la letteratura dell’assurdo.

Surrealismo abbinato ad una forma maniacale di esibizionismo, un binomio perfetto per Dalì. I suoi dipinti, decisamente surrealisti, vedevano sempre una luce fredda, come provenissero dal un altro mondo, forse quello dell’inconscio.

Dopo il periodo parigino, decise di tornare in Spagna, dove conobbe Helen Diakanoff Eluard, una donna russa che lui amava chiamare Gala. Fu lei a riportarlo un po’ alla normalità, cercando di liberarlo dalle sue ansie ed isterismi. Lo aiutò anche a scrivere dei libri, ben venti, di cui Le journal d’un genie, un vero best seller.

Quando gala entrava nel suo studio, l’artista si alzala e applaudeva in onore “ecco l’ape che mi mi porta il miele dell’ispirazione“. A volte firmava le sue tele con il doppio nome Gala-Dalì, perchè le riconosceva davvero un ruolo indispensabile alla sua vita di artista e uomo.

Gala fu anche il suo manager; negli anni ’30 a causa di un periodo difficile economicamente, l’artista si trasformò in inventore e Gala andava in giro per le strade di Parigi a vendere strampalati progetti, unghie che servivano da specchio, vasche da bagno da forme assurde, scarpe da donna con alte molle d’acciaio. Sicuramente non ne vendette una!

Picasso lì aiutò pagando alla coppia un biglietto per l’America, visto che certi surrealisti sembravano essere apprezzati dal nuovo mondo. Si imbarcarono sul piroscafo Champlain con un biglietto di terza classe. Arrivato fece vedere a dei giornalisti alcune sue opere che raffiguravano gala nuda, con delle cotolette d’agnello alle spalle. Incuriositi chiesero cosa significassero le cotolette d’agnello, Dalì fu immediato nella risposta, “amo mia moglie e le cotolette d’agnello, trovo che insieme siano una perfetta armonia”.

Un giorno inscenò il suo arrivo a Broadway, trasformando un taxi con tutta una serie di tubi che facevano cadere pioggia artificiale e seduto dietro un facsimile Cristoforo Colombo con un cartello “Sono tornato“. Il taxi era così collocato fuori della galleria che ospitava una sua mostra, tutto venduto!

Se la sua tecnica di dipingere era quella più cara agli antichi maestri, lo stile era esattamente il contrario, dove lo spazio-gravità era del tutto irrealistico. Un orologio da tasca si adatta alla forma del piano del cassettone come un formaggio Camembert. 

La storia di Dalì è straordinaria, iniziò la sua carriera senza un soldo e terminò da milionario. “Certi giorni penso che morirò per una dose eccessiva di soddisfazione” disse un giorno. 

Bisogna saper vedere le opere di Dalì come qualcosa di unico, nessun confronto per un istrione che viaggia in Rolls Royce gialla e nera, dove il valore non può che crescere, anzi “allungarsi nel tempo” come le sue figure.

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