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Salario minimo orario, troppe aspettative millenaristiche che andranno deluse

In un Paese come l’Italia dove la copertura contrattuale dei lavoratori è molto elevata, la definizione del giusto salario minimo è complessa e richiederebbe l’assunzione dei minimi orari contrattuali come punto di riferimento. Ma il salario minimo ha poco a che vedere con la questione salariale italiana

Salario minimo orario, troppe aspettative millenaristiche che andranno deluse

Il tema del salario minimo orario avrebbe apparentemente tutti i requisiti per diventare anche una misura di legge per determinare la retribuzione minima oraria corrisposta a fronte di una qualunque prestazione di lavoro su tutto il territorio nazionale. Così sembra essere in tutti i paesi dove è in vigore e dove, va detto con chiarezza, spesso sostituisce o sostiene una contrattazione debole

Dove la copertura contrattuale dei lavoratori dipendenti è elevata, come in Italia, il minimo legale rappresenta, almeno in teoria, la soglia di garanzia per la fascia più debole del mondo del lavoro a rischio di emarginazione e di sfruttamento. 

Salario minimo: cosa prevedono gli attuali contratti?

La nostra attuale situazione contrattuale vede i minimi orari collocati a livelli leggermente superiori ai 7 euro con l’eccezione più rilevante degli operai agricoli (5,14 euro orari) e delle collaboratrici domestiche (4,62 euro orari). Già questo sarebbe un problema se si trattasse di determinare un valore minimo orario uguale indistintamente per tutti i lavoratori del nostro paese, indipendentemente dal fatto che vivano a Milano o in Calabria. 

Del resto parlare di minimi orari salariali differenziati per il territorio equivarrebbe a riaprire un dibattito infinito sul ritorno alla “gabbie salariali” abolite una cinquantina di anni fa. Se si vuole applicare il modello in atto nei 21 paesi con salario minimo legale, o si adotta il valore minimo assoluto in atto (4,62 euro orari) che oggettivamente avrebbe un’utilità assai marginale, o si adotta un valore convenzionale più alto (potrebbe essere per esempio quello di sette euro) creando però una contraddizione enorme in due settori fondamentali come l’agricoltura e il lavoro domestico per cui il costo del lavoro legale aumenterebbe del 50% circa e che nell’immediato potrebbe essere risolto solo ricorrendo ad un trattamento differenziato per questi comparti.  

Sul salario minimo c’è una terza via

C’è una terza  ipotesi, nelle quale queste difficoltà potrebbero essere arginate senza contraddire l’obiettivo indicato dall’UE, vale a dire prendendo a riferimento tutti i minimi orari contrattuali, dando così applicazione surrettizia all’articolo 39 della Costituzione entrata in vigore il 1° gennaio del 1948 che come è noto non è ancora operante, almeno per il ben noto articolo 39, e molti dubitano che in futuro lo sarà.

Ma questo è il punto cruciale. La questione è complicata dal fatto che la nostra struttura contrattuale si regge sì sul tradizionale contratto collettivo nazionale di settore, di origine corporativa, ma anche su contratti aziendali sostitutivi di quelli nazionali, tra i quali il più noto è quello sottoscritto con Stellantis, l’ex Fiat. Qualcuno pensa che prendere a riferimento il solo tradizionale contratto nazionale dei metalmeccanici porterà all’estensione ope legis di quest’ultimo anche a Stellantis? 

Il tentativo di aggiramento dell’articolo 39, o per essere più chiari di “normalizzare” la libertà di contrattazione affermata peraltro senza equivoci appunto nell’articolo 39,  attraverso il fumoso richiamo ai sindacati confederali comparativamente più rappresentativi, non può eludere il tema di una chiara procedura di legittimazione di tutti contratti. Occorre quindi accertare la rappresentatività di ciascuna organizzazione stipulante, sia di parte sindacale che imprenditoriale, ma soprattutto riconoscere come fonte di legittimazione necessaria anche il diritto di voto di tutti gli interessati attraverso modalità rigorose. E questo deve valere per tutti i contratti anche perché la diversificazione delle attività economiche indotte anche da uno sviluppo tecnologico impetuoso ha reso obsoleto il vecchio impianto corporativo ereditato dal regime fascista. 

Questo non esclude una decisione politica di determinare per via legislativa, sulla base di un confronto con le parti sociali, una retribuzione minima oraria ma è nell’interesse del sindacato, se si prefigge di esercitare con gli imprenditori il ruolo di autorità salariale, non avvicinare troppo il minimo ai valori medi, giacché questo significherebbe autoridurre il proprio potere contrattuale. 

La questione salariale italiana

Lavorare alacremente per tagliare il tronco dell’albero su cui si è seduti è però una pratica masochista largamente diffusa. Detto ciò bisogna anche essere chiari sul fatto che il salario minimo orario legale ha poco a che vedere con la questione salariale italiana. 

Per essere banali basterebbe sottolineare che è fondamentale anche il numero delle ore lavorate. Il fenomeno dei nostri bassi salari va affrontato con determinazione ma anche con un corretto esame della realtà. La riduzione del cuneo fiscale allineandoci per esempio ai valori percentuali della Germania, che grosso modo potrebbe “restituire” circa l’8% del costo del lavoro, costerebbe al bilancio dello Stato 12-14 miliardi annui. Trattandosi di spesa pubblica bisognerebbe indicare con precisione come finanziarla.                                                                                                                                             

Un nuovo scostamento di bilancio o l’individuazione di adeguati prelievi fiscali? L’attesa messianica degli effetti della lotta all’evasione o uno sforzo effettivo di individuare misure davvero efficaci per colpire i contribuenti infedeli che si annidano dovunque? Oppure adottare di conseguenza il modello previdenziale tedesco che garantisce una pensione lorda in percentuale della retribuzione pari al 45% contro il 75% dell’Italia? Oppure ancora una spending review che è il contrario della politica dei “bonus” largamente adottata negli ultimi anni?                 

In ogni caso il sindacato farebbe bene a rilanciare la contrattazione, rivendicando il rinnovo dei contratti nazionali, in cui non si può ragionevolmente chiedere di recuperare l’inflazione importata, ma soprattutto rilanciando, attraverso una campagna di mobilitazione a partire dai gruppi dirigenti e dei delegati all’interno dei luoghi di lavoro, la contrattazione aziendale in una logica di scambio tra salario e produttività o efficienza del servizio che, in quanto tale, è priva di rischi inflazionistici e che ha maggior ragione per  essere accompagnata da incentivi fiscali. E perché no, nel momento in cui appaiono evidenti i limiti di una globalizzazione senza regole, contrattare anche il ritorno di attività a suo tempo delocalizzate?                                  

Non esistono soluzioni facili ai problemi difficili ma soprattutto è necessario essere consapevoli che il sistema in cui viviamo è fatto di vasi comunicanti ed ogni azione richiede di essere valutata in primo luogo per le conseguenze che produce.

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