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Saipem, in Borsa un salasso da 20 miliardi per l’ex gioiello di Stato

Continua la frana di Saipem. Si profila un aumento di capitale da 1,5 miliardi. Il mercato non perdona errori di governance e comunicazione, ecco le ragioni della tempesta

Saipem, in Borsa un salasso da 20 miliardi per l’ex gioiello di Stato

La frana rallenta, ma non si ferma. Anche oggi in Borsa è tempesta sui titoli Saipem: dopo il 30% bruciato lunedì, sull’onda del profit warning e dell’annuncio della necessità di procedere in tempi brevi ad un aumento di almeno un miliardo per rimpiazzare il terzo del capitale andato in fumo, è stata la volta del coro di “sell “ piovuto un po’ da tutte le case di investimento, senza eccezioni: da Mediobanca Securities a Kepler Chevreux. Dopo un avvio drammatico a -11%, la quotazione si è assestata per ora poco sotto 1,3 euro per azione con un calo del 4%. In attesa delle soluzioni elaborate dalle grandi banche, Intesa ed Unicredit in testa che, secondo gli analisti, non potranno prescindere da una robusta operazione sul capitale, attorno a 1,5 miliardi.

Un nuovo salasso, insomma, per sostenere quella che fu già punta di diamante dell’Eni negli anni d’oro delle perforazioni petrolifere. Ma da qualche anno causa di “buchi” imbarazzanti per il cane a sei zampe, forte del 30,4% del capitale, e pure per la Cassa Depositi e Prestiti, che aveva rilevato una quota del 12,5% società in occasione del maxi-aumento di capitale, la “grande svolta” annunciata con enfasi nella cornice della City. Una delle operazioni più impegnative della gestione Costamagna/Galia ma anche l’occasione per riabilitare l’immagine di una azienda pubblica da anni sottoposta a critiche feroci da parte dei gestori internazionali, assai critici sulla “governance all’italiana”. Da questo punto di vista l’operazione è senz’altro fallita, a giudicare dalle cifre, ma non solo.

E’ impressionante la voragine dei conti. Tra il 2011 ed il 2012, l’anno d’oro, Saipem era arrivata a capitalizzare più di 22 miliardi di euro. Oggi la società vale poco più di 1,2 miliardi: più di 20 miliardi di valore andati in fumo, dai massimi a 50 euro a meno di 1,3. Ma bisogna anche tener conto dei capitali investiti dai soci nel 2016 (3,5 miliardi di euro) in occasione dell’aumento necessario per far ripartire quella che, ricordò Costamagna, “è la multinazionale italiana che occupa più ingegneri”. Allora il fatturato toccava i 12,5 miliardi contro i poco più di 6 dell’ultimo esercizio.  A che si deve un disastro del genere? E’ evidente che il gruppo non ha saputo adeguarsi agli scenari economici, energetici e geopolitici che in questi anni hanno profondamente cambiato il mercato. I manager del gruppo hanno risposto al calo strutturale delle entrate, coinciso con la svolta delle Big Oil, accettando di tagliare listini e profitti, pur di non ridurre la presenza sul mercato in attesa di un turnaround che non c’è stato mai. 

E così il gruppo si è ridotto a chiudere, con l’eccezione di un modesto utile a fine 2019, tutti gli esercizi in perdita dal 2013, accumulando la bellezza di 5 miliardi di perdite. Di fronte a questa voragine l’azionista pubblico si è limitato a chiedere l’intervento di Cdp e ad affidare l’impresa a manager di grande valore, come Stefano Cao, segnati però da una lunga militanza nell’Eni di un tempo. Ma l’obiettivo di trasferire l’innegabile know-how del gruppo dai petroliferi alle rinnovabili è stato frustrato dal calo dei costi (e dei margini). L’aumento delle materie prime e i problemi della logistica hanno fatto il resto. Ma ad aggravare la crisi hanno senz’altro contribuito le “fantasie” del sistema, spesso pensate per aggiudicarsi fondi pubblici per imprese popolari. Pochi mesi fa si parlava ancora di un intervento di Saipem al fianco di Leonardo nell’operazione di impiego dell’idrogeno per il rilancio dell’Ilva pulita, poi ridimensionata dalla Ue che ha negato i contributi per tecnologie che diventeranno praticabili solo tra 5-6 anni: non tutto quel che è verde luccica.

Fin qui la crisi industriale, difficile ma non insolubile, vista la qualità degli uomini. Ma l’entrata a gamba di tesa di Francesco Caio, presidente dal 2018 e ai vertici operativi dal 2021, solleva nuovi problemi di governance. Nell’ottobre scorso il manager, illustrando agli analisti il futuro dell’azienda, aveva negato la necessità di aumenti di capitale. Ora proprio lui ha condotto l’indagine interna da cui è emerso che il backlog (diciamo l’arretrato ancora da pagare) era molto inferiore a quello stimato in precedenza. Un siluro probabilmente rivolto a Cao, nell’ambito di una strategia che Caio ha applicato anche in altre situazioni chiedendo, correttamente, di ripartire senza scheletri nell’armadio. Ma stavolta dovrà spiegare perché, da presidente, in tre anni non ha avuto sentore di nulla. Al punto da spingersi alle dichiarazioni di ottobre. Insomma, un gran pasticcio, un abisso da 20 miliardi di perdite che pesano sulla credibilità del made in Italy di Stato.

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