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Russia-Ucraina, la guerra non avrà vincitori ma la fine non è dietro l’angolo: parla Silvestri (Iai)

INTERVISTA A STEFANO SILVESTRI, consigliere scientifico Iai e grande esperto di geopolitica e affari militari – Tra Russia e Ucraina si combatte una guerra anomala che non potrà avere vincitori conclamati – Un compromesso sarà inevitabile ma non è così vicino come si spererebbe – Ecco perchè ed ecco cosa può succedere nei prossimi mesi

Russia-Ucraina, la guerra non avrà vincitori ma la fine non è dietro l’angolo: parla Silvestri (Iai)

Non possono esserci vincitori nella guerra Russia-Ucraina, visto che l’Ucraina può solo difendersi, cercando di cacciare dai suoi territori l’invasore, ma che non potrà mai attaccare la Russia perché gli alleati non glielo permetteranno. Siamo insomma di fronte a una guerra “anomala”, che non potrà avere vincitori acclamati. E che finirà solo quando i contatti diplomatici che ci sono dietro le quinte, fra tutti i protagonisti, compresi russi e americani, riusciranno a trovare i compromessi giusti e presentarli sul palcoscenico. Cosa che non avverrà molto presto. 

A 9 mesi dall’invasione russa facciamo il punto del conflitto in Ucraina con il professor Stefano Silvestri, consigliere scientifico e già presidente dello Iai e grande esperto di geopolitica e di affari militari.   

Partiamo dall’episodio simbolo, la ritirata dei russi da Kherson, una delle città che avevano occupato. Quando il 9 novembre scorso il generale Serghej Surovkin diede l’ordine alle truppe russe di lasciare la città e di ritirarsi al di là del fiume Dnepr, tutti ci interrogammo: cosa vuol dire? La guerra è finita? Gli ucraini hanno vinto? Lei che cosa ha pensato?

«Niente di tutto questo. Mi è apparso chiaro che la Russia, constatando che era difficile tenere un fronte così aperto e frastagliato, avesse voluto cercare posizioni più facilmente difendibili in attesa che passasse l’inverno e che venissero addestrati nuovi soldati. Si trattava, e si tratta, di aspettare nuove armi e munizioni perché anche la Russia, come gli ucraini e gli alleati, hanno consumato enormi quantità di materiali e hanno bisogno di rifornimento. Per tutte queste ragioni, nel momento in cui l’Ucraina era all’attacco e raccoglieva il vantaggio di armi più moderne e di soldati più motivati, ha avuto senso per i russi arroccarsi in difesa e aver lasciato Kherson. Tenuto anche conto che tenere una città comporta grossi problemi logistici: devi assicurare l’arrivo di derrate alimentari per la popolazione e devi garantire la sicurezza interna, che significa anche distaccare diversi uomini dai compiti strettamente militari. Nel frattempo mi pare che la Russia abbia concentrato le sue azioni nel bombardare la società civile, per cercare di forzare l’Ucraina ad arrendersi per sfinimento. Cosa che non ha mai funzionato nella storia delle guerre. Comporta grosse sofferenze per le popolazioni, violazione di norme di diritto internazionale, senza portare grossi vantaggi, anzi»,

Quindi sul piano militare, qual è la situazione in questo momento?

«Sul piano militare mi sembra che la situazione abbia raggiunto uno stadio in cui molto dipende da quello che vogliono fare gli ucraini, più che i russi. O che possono fare. La cosa da ricordare è che questa è comunque una guerra anomala, limitata, una guerra che si svolge in Ucraina e che non può essere portata in Russia perché noi, l’Occidente, non vogliamo. Per problemi che attengono, certo, al pericolo di uno sbocco nucleare, ma anche perché non si vuole mettere la Russia con le spalle al muro. Il fatto è che gli ucraini possono liberare anche tutto il territorio nazionale dalle truppe russe, ma non possono sconfiggere la Russia. Mettere fine all’invasione sì, ma forzare la Russia a rinunciare ai suoi obiettivi è molto più complicato. Possono forse riuscirci le sanzioni economiche e politiche, però è una cosa diversa, e non dipende dall’Ucraina. La situazione è abbastanza insolita, bisognerà attenderne gli sviluppi, perché è anche vero che non si può andare avanti all’infinito in questa maniera. A un certo punto se non ci possono essere vittoria o sconfitta certe, non restano che i compromessi». 

Prima di entrare nel merito dei compromessi ci spiega perché non sarà una vittoria se gli ucraini riusciranno a ricacciare i russi oltre i confini?

«È una vittoria, certo. Ma parziale. Perché i russi continueranno a essere al di là della frontiera e potranno, se lo vorranno, continuare a sparare sull’Ucraina. Mentre l’Ucraina, come ho detto, non potrà sparare sulla Russia. Io parlerei quindi di una situazione di stallo abbastanza grave più che di una vittoria. Certo, sarebbe una grossa sconfitta politica per Putin e non si sa se può reggerla. Ma è un altro problema. Dal punto di vista militare, ripeto, questa è una guerra anomala. Perché il nemico non sarà stato distrutto nemmeno se gli ucraini riusciranno a ricacciare tutte le truppe russe dal proprio territorio». 

E allora parliamo dei compromessi…

«Che tipo di compromesso innanzitutto? Difficilmente i russi potrebbero pretendere di riavere indietro parte del territorio ucraino occupato se fossero cacciati oltre i confini. Quanto a Zelensky, egli non vuole solo riprendersi quella parte di Paese invaso, vuole – ha detto – ‘giustizia’. E danni di guerra. Lo capisco. Ecco: giustizia e danni di guerra sono però due punti dolenti e molti difficili da risolvere e raggiungere per la Russia».

Stefano Silvestri sulla Guerra Russia Ucraina

Perché?

«Difficili da risolvere se Putin resta al Cremlino. E difficili da raggiungere senza che la Russia o questo regime crolli». 

Non vede altre soluzioni?

«Il pallino è nelle mani di Putin: deve decidere se vuole negoziare veramente o meno. Perché è chiaro che se decide di negoziare non può non tornare indietro rispetto alle ambizioni che aveva sull’Ucraina. Ambizioni che ha affermato con l’annessione alla Russia  del 15% del territorio ucraino. Onestamente questa cosa è molto difficile da gestire. E lo si è visto nelle ultime ore dalla risposta che il leader russo ha dato alla mano tesa di Biden, che, insieme con Macron, gli ha detto: “Pronto a incontrarti, ma fai cessare la guerra”. “D’accordo – gli ha risposto Putin –  ma prima riconosci le zone annesse come russe”. 

Insomma nulla di fatto. Nel frattempo la NATO ha ritenuto opportuno ribadire la sua “porta aperta” ad Ucraina e Georgia. La porta non era mai stata chiusa, almeno formalmente, ma sembrava si preferisse lasciare la cosa nel vago, non reiterarla. La scelta invece di ribadirla mi sembra andare nel senso di indurire lo scontro più che di favorire eventuali negoziati. Intendiamoci, i contatti diplomatici ci sono: tra americani e russi, con cinesi, indiani, turchi. Quello che è mancato fino ad ora, ripeto, è una chiara disponibilità di Putin a negoziare. Perché se ci fosse un tavolo credibile di negoziazione, sarebbe difficile per Zelensky non parteciparvi, anche se oggi dice di non voler avere niente a che fare con  Putin».

Veniamo alla Russia: molti analisti nelle ultime settimane si sono esercitati a disegnare un futuro per il Paese e da più parti è stato evocato lo spettro dello smembramento della Federazione. Lei cosa ne pensa?

«È chiaro che se dovesse esserci un improvviso crollo del morale dell’esercito russo, un crollo analogo a quello che vedemmo quando ci fu il colpo di Stato contro Gorbaciov , il rischio di una disgregazione della Federazione ci sarebbe. Senza dimenticare che esiste già una fibrillazione nel pianeta ex sovietico e ora russo: gli alleati  ferrei di una volta, i  kazaki in primis, non hanno apprezzato lo scoppio del conflitto e lo hanno anche dichiarato. In ogni modo bisogna vedere. Io penso che l’esercito russo abbia ancora la capacità di bloccare una situazione di crisi del genere. E poi non è detto che un eventuale crollo di Putin produca conseguenze politiche migliori. Potrebbero invece conquistare il Cremlino personaggi ancora più massimalisti dell’attuale presidente. Non dimentichiamo che l’unica opposizione a Putin che c’è oggi nella Duma è quella più conservatrice e nazionalista di lui, essendo quella liberale praticamente tutta in galera. Sarebbe insomma un colpo di Stato reazionario, fortemente nazionalista. Diciamo che fu così anche quello del ‘91 contro Gorbaciov; ma allora ci fu uno Eltsin che riuscì a mantenere insieme il Paese. Non sappiamo se oggi ci sia uno Eltsin disponibile, almeno io non lo so». 

Tutto ciò non ricorda l’arte dei “sovietologi” del tempo del Pcus? 

«Francamente mi sembra una speculazione inutile. Quello che mi sembra più interessante è capire se in questa fase ci sia la possibilità che Putin, di fronte alla difficoltà che si trova a gestire sul campo, sia disponibile a negoziare. Per il momento credo sia molto difficile un colpo di Stato al Cremlino. E finché il sistema di governo del Cremlino regge, regge anche la Russia. Detto questo un colpo di Stato è difficilmente prevedibile, altrimenti non sarebbe nemmeno un colpo di Stato». 

Una cosa è certa: nulla accadrà molto presto. Bisognerà che passi tutto l’inverno?

«È facile che sia l’inverno a decidere se ci saranno negoziati o meno. Se arriveremo però  in primavera semplicemente in fase di attesa, io credo che avremo un’altra offensiva. O il tentativo di un’altra offensiva. Se sarà ucraina o russa, non lo possiamo sapere; anche se oggi sembra possa essere più ucraina che russa. Insomma se l’attesa durante l’inverno servirà sarà solo per guadagnare tempo, e non per arrivare a qualcosa di concreto, dobbiamo aspettarci la continuazione della guerra».

Che significherà nella pratica?

«Potrebbe verificarsi il tentativo dell’Ucraina di cacciare definitivamente i russi dal territorio. Va detto però che se anche ci riuscissero la faccenda non sarebbe chiusa. Perché se la Russia – come i Repubblicani negli Usa – non riconoscesse la vittoria dell’avversario, bisognerebbe garantire la sicurezza dell’Ucraina. E questo potrebbe essere una cosa molto complicata. In che modo lo facciamo? Portiamo le truppe Nato in Ucraina? Ci inventiamo le garanzie delle Nazioni Unite? O dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa? Ci potranno essere varie forme, ma tutte presuppongono che bisognerà metterci dei soldati. Insomma la liberazione dei territori ucraini ci metterebbe nella situazione di dover garantire la sicurezza di quella liberazione: non sarebbe una passeggiata».

L’abbiamo fatto nella ex Jugoslavia…

«Certo, ma in questo caso siamo ai confini con la Russia, è un pochino più delicato». 

Di che cosa potrebbe “accontentarsi” la Russia per arrivare ai negoziati? Della Crimea?

«Io credo che Putin non voglia mollare nulla, né la Crimea, né il Donbass: per il momento vuole tutta la parte est dell’Ucraina ed è questo che rende molto difficile il negoziato. Ovviamente anche Zelensky vuole indietro tutto il suo territorio e giustamente. Io inizialmente pensavo che un compromesso possibile potesse essere il riconoscimento dell’integrità del territorio ucraino, il passaggio definitivo della Crimea alla Russia, e il riconoscimento di alcune parti del Donbass di un’autonomia culturale e amministrativa. Però questo era il compromesso precedente alla guerra».

Era il protocollo di Minsk, più o meno…

«Si. Ma adesso con la guerra le situazioni si sono molto incattivite. Ci sono costi grossi che sono stati pagati per cui chiaramente un negoziato dovrà in qualche maniera tenerne conto. Potrebbe comportare anche qualche compromesso territoriale, non bisogna negarlo. Ma tenendo conto che non si può premiare la Russia perché ha attaccato l’Ucraina».

Sarebbe impossibile dopo migliaia di morti e un Paese distrutto…

«Appunto. Alcuni mesi fa, tra maggio e giugno, si parlava di un negoziato triplice. Uno russo-ucraino, con l’assistenza degli alleati; uno generale, sulla sicurezza europea a cui partecipavano tutti, in quadro Osce, per capirci; e un altro con la ripresa del dialogo strategico Russia-Usa. Questi tre diversi negoziati sarebbero dovuti andare di conserva, l’uno sopportando l’altro e alla fine il sistema generale avrebbe consentito una pace credibile. Una costruzione molto complessa, che però per funzionare avrebbe bisogno di un’effettiva voglia della Russia di collaborare con l’Europa e con gli Usa, oltre che con l’Ucraina. Io credo che da parte europea ci sia la disponibilità a un disegno di questo genere. Da parte americana con Biden è possibile. Ma ignoriamo al momento che cosa ne pensino i russi. I contatti finora sono stati solo tecnici, fra i militari, per evitare incidenti tipo quello del missile in Polonia. E niente altro».

Comunque pare di capire dal suo ragionamento che la fine della guerra riguarda la sicurezza di tutti, Europa in primo luogo, non solo di Ucraina e Russia.

«Non c’è dubbio. Il negoziato dovrà riguardare anche la sicurezza europea nel suo complesso».

C’è consapevolezza di questa necessità a suo parere in Europa e nei governi europei?

«So che se ne parla. Quanto però i governi europei abbiano voglia, tempo, modo e risorse per affrontare una cosa di questo genere, non posso dirlo. Dopo un grande sforzo di individuare obiettivi comuni ora ho l’impressione che ci sia una fase di stanchezza dovuta alle pressioni politiche interne nei vari Paesi. Il cambio di governo in Italia, la debolezza del governo di coalizione in Germania, che deve ancora trovare una sua identità, la fragilità in questo momento di Macron. Stendendo un velo pietoso su quello che sta accadendo in Gran Bretagna che sembra il rincorrersi di farse. Insomma tutte cause che indeboliscono l’obiettivo della fine del conflitto.  Condito con l’attesa di quello che accadrà fra due anni negli Stati Uniti».

E l’Italia? Come si sta comportando il nuovo Governo?

»Meloni non sembra avere grandi idee sulla politica internazionale. Ha capito che dobbiamo stare con gli Stati Uniti e nella Nato. Ma non ha capito ancora, secondo me, l’importanza  e il peso che possiamo avere noi nella politica europea. Come non si tratti semplicemente di strappare concessioni alla Commissione o al Consiglio, ma di essere protagonisti. In una situazione di questo genere, per esempio, si tratterebbe di aiutare Francia e Germania a trovare un compromesso. Questo è un ruolo che l’Italia potrebbe e dovrebbe avere perché è nel suo completo interesse. Insomma il problema è assicurarci un futuro più stabile, più sicuro, più coeso. Su questo non ci si può limitare ad aspettare e a criticare. Che fa la Germania? Non fa abbastanza. Che fa la Francia? Sbaglia. Va bene, e noi che facciamo?».

È possibile che non sia proprio nel Dna di Meloni e del centrodestra al governo quello che lei sta chiedendo.

«È probabile di no. Ma potrebbero imparare. Anzi dovrebbero. Tutto sommato dovrebbero essere più ambiziosi, pensare di più a Scholz e a Macron e meno a Orban. Sono loro i nostri interlocutori, di Orban, con tutto il rispetto, non ci frega niente».      

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