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Romiti e i misteri del capitalismo italiano

E’ uscito il nuovo libro-intervista al manager, che fu capo della Fiat per 25 anni – Difende il ruolo di Enrico Cuccia, per il quale Romiti ha nutrito una devozione filiale – Benevolo con De Benedetti, ricordando i 100 giorni in Fiat e le sfide in Confindustria e fuori – Strano: nomina solo di sfuggita Cantarella, per quasi un decennio suo braccio destro

Romiti e i misteri del capitalismo italiano

Cesare Romiti è stato per venticinque anni come capo della Fiat al centro di tutte le vicende del capitalismo italiano. Un manager capace, con la fama sicuramente meritata di duro, ma soprattutto un uomo di valore, con un alto senso del dovere ed una convinzione ben salda di fare insieme agli interessi della propria azienda anche quelli più generali del Paese. La lettura del libro intervista raccolta da Paolo Madron è una esperienza emozionante per chi ha vissuto, come osservatore o a volte come coprotagonista, certi avvenimenti, ma soprattutto è molto istruttiva per i giovani che si affacciano adesso sul mercato del lavoro non solo e non tanto per conoscere la nostra storia, ma soprattutto per cercare di capire dall’esperienza di una personalita’ eccezionale come Romiti, con quale atteggiamento bisogna affrontare la vita, superare le difficolta’ e mettere a frutto i successi.

Come afferma giustamente Ferruccio de Bortoli nella sua prefazione questa intervista non è un vero e proprio libro di storia. Anche se Romiti assume spesso un atteggiamento il più possibile distaccato e neutrale è inevitabile che in certi passaggi prevalgano i suoi ricordi personali piuttosto che la ricostruzione oggettiva dei fatti. In generale Romiti tende a difendere il modo di fare impresa di quegli anni e soprattutto il ruolo di Cuccia e di Mediobanca, che certamente ebbero grandi meriti nel fare dell’Italia un grande paese industriale. Ma questo non spiega a sufficienza le ragioni per le quali a partire dalla seconda metà degli anni ’70 si e’ assistito ad un progressivo declino delle nostre imprese, all’uscita dell’Italia da settori cruciali quali la chimica, l’elettronica ecc. Né viene messo adeguatamente in luce lo sbocco catastrofico che la crisi ebbe nel ’92 non solo con tangentopoli ma con la svalutazione della lira e le misure di austerità del Governo Amato.

Ma il libro non ha la pretesa di rifare la storia dell’economia italiana ma di metterne in luce attraverso il racconto di alcuni episodi e del modo di operare di alcuni dei protagonisti di allora, le personalita’, le simpatie e le antipatie che pure hanno determinato l’esito di certe contese e indirettamente le sorti del Paese. Siamo di fronte più ad una galleria di caratteri e di culture che ad un esame freddo e distaccato dei fatti. Romiti ha avuto per Enrico Cuccia una devozione quasi filiale. E sicuramente il gran capo di Mediobanca era un uomo di grande spessore, moralmente integerrimo, abbastanza unico da servirsi anche di persone poco raccomandabili pur di perseguire il fine di tenere in piedi quel poco che esisteva della grande industria privata italiana. E per lunghi anni questo obiettivo è stato centrato. Verso la fine della sua avventura terrena però il metodo ha prevalso spesso sull’obiettivo tanto che una volta, quando Romiti era già uscito dalla Fiat, l’avv. Agnelli durante un incontro privato criticò aspramente Mediobanca, a suo parere ormai diventata solo un centro di potere che agiva non sulla base di considerazioni di business, ma per perpetuare la sua influenza sul mercato.

Con De Benedetti, Romiti è stato nelle sue risposte particolarmente benevolo, sia nel raccontare i 100 giorni in Fiat sia dopo quando i due si sono sempre trovati su fronti opposti sia negli affari che in Confindustria. Due persone fatte per non capirsi. Carlo, spregiudicato finanziere, tendeva ad impersonare l’imprenditore pure di mercato, lasciando alla Fiat il marchio di grande azienda assistita dallo Stato o quantomeno collisa con i politici. Di fatto nessun imprenditore è stato più politico di De Benedetti, e dalla politica ha avuto grandi vantaggi, basti ricordare la Sme o la concessione delle frequenze per i cellulari che permisero di salvare la Olivetti dalla bancarotta.

Strano poi che Romiti non nomini, se non di sfuggita, Cantarella, che per quasi un decennio è stato il suo braccio destro in Fiat Auto e poi nella holding. E’ in quel decennio che si sono aggravati i guai della Fiat, peggiorati poi dalla politica avventurosa di Fresco e dello stesso Cantarella che comprarono la Case in America e si lanciarono in poderosi investimenti in Argentina ed in India che non hanno mai reso nulla.

Ma con Cantarella la rottura è diventata insanabile quando la Fiat tentò la scalata alla Montedison, preziosa perla dell’Impero Mediobanca, e addirittura non fece mistero di volere anche la Fondiaria. Romiti, ovviamente difendeva Mediobanca ed in particolare il delfino di Cuccia, Maranghi ( uomo assai piu’ rigido dello stesso Cuccia) e quella contrapposizione frontale con Torino fu probabilmente all’origine dell’aperto contrasto alla elezione di Carlo Callieri alla presidenza della Confindustria. Romiti sostiene nel libro che a suo parere Callieri, verso cui nutriva grande stima, era però espressione dei “professionisti di Confindustria” mentre, come si e’ visto in seguito, i veri professionisti sono quelli emersi con la presidenza D’ Amato quando si affermò un concetto politico dell’associazionismo che divideva gli scritti tra vincitori e vinti e che favoriva l’insediamento alla presidenza delle terroriali e quindi in Giunta di uomini legati alla presidenza confederale, un po’ come le correnti dei partiti. I professionisti della Confindustria non sono i Merloni o gli altri grandi imprenditori che appoggiavano Callieri, ma coloro i quali fanno di una poltrona nel sistema confederale un completamento del proprio giro di relazioni e di affari.

Il libro è ricco di personaggi e di episodi e si fa leggere con facilità e piacere. C’e un ultimo episodio che mi riguarda direttamente e che non posso non citare: quello relativo alla mia nomina alla direzione del Sole 24 Ore. Sono grato a Romiti per essersi battuto per la mia candidatura contro i pregiudizi, allora come oggi, assai forti nei confronti di chiunque fosse catalogato come uomo Fiat. In un paese dove molti indossano una casacca è veramente strano che ci si batta solo contro chi è passato dalla Fiat. Io all’epoca avevo oltre 27 anni di lavoro alle spalle di cui solo quattro passati in Fiat, 14 al Sole ed in altri giornali, e sette in Confindustria. Credo di essere, seguendo in questo una precisa affermazione dello stesso Romiti, una persona che non ha mai amato mettersi delle etichette, e quindi non si capisce perché debba esserci sempre questo pregiudizio verso chi ha prestato la propria opera professionale in Fiat. E questo riguarda anche il fatto che non puo’ essere ritenuto elegante il passaggio dal Gruppo Espresso o dalla Pirelli mentre solo per chi viene dalla Fiat devono valere dei sospetti sulla propria professionalita’. Del resto, come ricorda lo stesso Romiti, i risultati della mia direzione ed il pieno accordo con Tronchetti, allora presidente della società editrice, stanno a dimostrare quanto certi pregiudizi siano infondati.

Ma essere contro la Fiat continua ad essere un sport nazionale di politici, sindacalisti ed anche giornalisti. Avere per nemico la Fiat, fare un libro contro gli Agnelli, assegna una facile patente di autonomia che consente di aprire tanti spazi di carriera. Romiti si e’ battuto con durezza contro questi pregiudizi. La sua esperienza viene ora consegnata ai giovani che potranno apprezzare non solo le singole azioni o decisioni (alcune delle quali potranno pure essere ritenute sbagliate) ma la dirittura morale dell’uomo, la fermezza del carattere e la grande umanita’ di un capo, burbero, ma mai autoritario, che ha sempre cercato di basare il proprio ruolo di comando non sull’autoritarismo ma sull’esempio, come recitava una massima bene in vista sulla parete a lato della sua scrivania in Corso Marconi.

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