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Referendum trivelle, la vera posta in gioco

L’unico dei sei quesiti sopravvissuti alla Legge di Stabilità riguarda la durata delle concessioni offshore già attive. Se vincessero i no, comunque i potenziamenti per lo sfruttamento dei giacimenti andrebbero autorizzati. Se vincessero i sì salterebbero investimenti e posti di lavoro e finirebbero per chiudere 106 piattaforme in mare

Trivelle sì, trivelle no. E’ davvero questo il quesito sul referendum ? Quel giorno gli italiani saranno chiamati a votare sulla durata delle concessioni già autorizzate, nello specchio di mare entro le 12 miglia dalla costa, per l’esplorazione e lo sviluppo di giacimenti di idrocarburi.

Ad avere proposto inizialmente il ricorso alla consultazione popolare sono state 10 Regioni poi scese a 9, dopo la rinuncia dell’Abruzzo: Basilicata, Marche, Puglia, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise. L’avanzata referendaria era partita con una portata più ampia: sei quesiti in tutto, potenzialmente accolti dalla Cassazione ma poi “disinnescati” dalla Legge di Stabilità 2016 che ha accolto buona parte delle richieste avanzate dalle Regioni e dagli ambientalisti. Cosicché in campo è rimasto solo un quesito, il sesto: riguarda nello specifico la norma che prevede che i permessi e le concessioni già rilasciati abbiano la “durata della vita utile del giacimento”.

 Posta così la questione è poco comprensibile. In verità, ci verrà chiesto: volete voi che, quando scadranno le concessioni nelle acque territoriali italiane, quei giacimenti vengano fermati anche se sotto c’è ancora gas o petrolio? Questa domanda ne porta con sé un’altra: vogliamo che le compagnie petrolifere chiudano le 106 piattaforme presenti nel nostro mare quando scadranno le concessioni governative, senza continuare a estrarre metano o petrolio se ce ne fosse ancora?

Posta in questi termini, forse, la portata del referendum diventa meno oscura. E si può comprendere meglio perché il governo difende l’attuale norma della Legge di Stabilità, dove si afferma che “la concessione dura finché dura il giacimento”. Il che significa, hanno spiegato fonti di Palazzo Chigi negli ultimi giorni, “garantire la manutenzione degli impianti, l’impatto ambientale degli stessi e anche circa cinquemila posti di lavoro”. Solo a Ravenna sarebbero a rischio 3 mila posti, secondo l’allarme lanciato dal vice-sindaco Giannantonio Mingozzi.

Guardando ancora più nel dettaglio, la vittoria del sì finirebbe per portare ad un aumento delle importazioni di petrolio (la nostra dipendenza dall’estero è cresciuta al 91%) in quanto bloccherebbe investimenti importanti annunciati per potenziare, soprattutto, tre giacimenti già attivi: Guendalina (Eni) nel Medio Adriatico, Gospo (Edison) davanti all’Abruzzo e Vega (Edison) al largo di Ragusa. Non ci saranno invece effetti sui grandi giacimenti oltre le 12 miglia dalla costa e non dovrebbe impattare sugli investimenti Eni in Sicilia.

Se invece vincessero i no, il prolungamento delle concessioni non sarà comunque automatico: le compagnie dovranno chiedere il prolungamento dell’attività e superare i diversi livelli autorizzativi a cominciare dalla tanto temuta Valutazione di impatto ambientale. Ma perché tutto ciò accada, occorrerà che prima il prezzo del petrolio torni a livelli tali da rendere convenienti investimenti onerosi come quelli necessari per rinnovare e potenziare le piattaforme off shore. E’ di pochi giorni fa, mercoledì, la rinuncia di Petroceltic al suo permesso di ricerca nell’Adriatico.

Tornando alla domanda iniziale: trivelle sì o trivelle no? Attenzione alle strumentalizzazioni, non fanno l’interesse del Paese.

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