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Reddito di base: welfare o workfare?

Stephen Mihm, giovane storico dell’Università di Georgetown passa in rassegna le diverse concezioni del reddito di base, indica gli errori da non commettere e avverte che se esso diventerà l’ennesimo ibrido tra welfare e workfare è destinato a fallire

Reddito di base: welfare o workfare?

Ci siamo spesso occupati del reddito universale di base. Si tratta di un tema sul quale sono intervenuti alcune delle menti più brillanti del nostro tempo, scontente di quello che leggono e vedono nelle città dove vivono. C’è una indigenza di ritorno, le classi medie si impoveriscono, il futuro dell’umanità non è brillante, la disuguaglianza sta diventando sempre più insopportabile anche per coloro che beneficiano dell’attuale stato delle cose.

La spinta ad abbracciare il reddito di base è ancora largamente utopistica e idealistica. Nessuno riesce ancora a figurarsi neppure in quale categoria delle politiche pubbliche inquadrarlo: nel welfare?, nelle politiche del lavoro?, nelle politiche fiscali?

Il reddito universale di base non è però un’idea nata ieri. È un’idea che ha percorso un lungo cammino non solo a livello teorico, ma anche pratico.

Una nuova generazione di studiosi

Il contributo che segue è stato scritto da Stephen Mihm, un giovane e brillante storico dell’Università di Georgetown che adesso vive in una fattoria nei pressi di Atene.

Mihm fa parte della generazione di storici cosmopoliti e globali che interpretano la disciplina come una narrazione di sintesi dello sviluppo umano nel lungo periodo. Il più conosciuto esponente di questa tendenza multidisciplinare è senz’altro lo storico israeliano Noah Yuval Harari. Ma Mihm condivide senz’altro qualcosa con i sociologi anticonformisti come Malcon Gladwell.

Come Harari e Gladwell, Mihm è molto presente nella conversazione pubblica. Scrive per il “Boston Globe”, il “New York Times” e altre testate. Un suo libro del 2010, scritto insieme a Nouriel Roubini, La crisi non è finita (ed. ital. di Feltrinelli) è stato per molto tempo nella bestseller list del “New York Times”.

L’ecletticità e la poliedricità degli interessi di Mihm si è concretizzata in lavori di differente natura come Artificial Parts, Practical Lives: Modern Histories of Prosthetics (2002) e The Life of P.T. Barnum (2017) di cui è il curatore. Per Harvard sta lavorando a un libro sugli standard e la standardizzazione negli Stati Uniti.

In questo intervento sul reddito di base dal titolo “Why Legendary Economists Liked Universal Basic Income. The idea wasn’t invented by today’s big-government left. It has intrigued thinkers from John Stuart Mill to Milton Friedman”, Mihm ripercorre le tappe del dibattito tra gli economisti sul reddito di base. Discute i differenti approcci e i possibili errori che questi approcci contengono e che non dovrebbero essere replicati. Il primo sbaglio è intendere il reddito di base come una misura che aiuta le politiche del lavoro, il secondo è quello di lasciare che sia lo Stato a gestire il servizio.

Buona lettura.

Il rinascimento del reddito di base

Il socialismo si sta davvero impossessando del Partito democratico e degli Stati Uniti, come asserisce il presidente Donald Trump in ogni utile occasione? Si tratta di una prospettiva altamente improbabile e altamente esagerata. Ci vuole però un bel “ma”.

In effetti, l’asse del Partito democratico si sta spostando a sinistra e una parte del suo elettorato sembra filtrare con l’idea del socialismo. Naturalmente un socialismo in versione stelle e strisce più vicino a quello delle democrazie nordiche europee che a Syriza. È vero anche che l’idea di un pagamento cash erogato dallo Stato a tutti i cittadini guadagna sempre più popolarità anche tra i parlamentari di orientamento più moderato e perfino di idee conservatrici.

La prima impressione, visto lo stato delle finanze pubbliche nel mondo, è che l’idea di un reddito di base universale, o UBI, abbia il sapore anestetico dell’utopia. Tuttavia, sta guadagnando terreno tra i progressisti americani. Infatti, non è più solo il caposaldo del programma della corrente a maggior trazione nel Partito democratico, il Green New Deal.

Inoltre, sta entrando nella conversazione in diversi paesi, inclusa l’India. Ha già superato un periodo di sperimentazione in Finlandia, un paese ben noto per la sua capillare rete di sicurezza sociale.

Il progetto di distribuire una somma forfettaria uguale di denaro a tutti senza particolari vincoli, se non quello di esistere, non è un progetto solo della sinistra. Dalla fine del 18° secolo, il reddito di base non è stato pensato tanto come una forma di welfare quanto come una misura per sbarazzarsi del tutto del welfare. Questa possibile finalità potrebbe spiegare il motivo per cui il reddito di base ha ricevuto l’adesione di un gruppo così eclettico di economisti e politici nel corso dei secoli. E può anche spiegare il suo rinascimento oggi.

Sussistenza, punto

L’UBI si basa sull’idea che ogni membro della società abbia diritto a un contributo che gli consenta di sopravvivere. La chiave di tutto è la sussistenza: la maggior parte delle proposte postula che il pagamento sia di pura sussistenza. Cioè così basico da dover trasformarsi in un incentivo ai destinatari a cercare un lavoro integrativo.

Thomas Paine, uno dei padri fondatori della democrazia americana e rivoluzionario del 18° secolo, fu tra i primi a definire i contorni di un’idea che lui definì come “Citizen’s dividend”. Il valore del sussidio avrebbe dovuto essere sufficiente a una giovane coppia per “comprare una mucca, e gli strumenti per coltivare un pezzo di terra”.

Scrivendo qualche decennio dopo Paine, il pensatore radicale belga Joseph Charlier delineò una versione autoctona dell’UBI. Assicurò i suoi critici che la dimensione del pagamento avrebbe dovuto essere piuttosto modesta. “Lo Stato garantirà il pane a tutti ma i tartufi a nessuno — scisse — . Mi dispiace per i pigri; dovranno cavarsela con l’indennità minima. Il dovere della società non va oltre questo”.

L’idea di Charlier non riuscì ad ottenere molti consensi. Ma il pensatore londinese John Stuart Mill ebbe più fortuna nel trovare un seguito a questo proposta. Ai tempi di Mill, la povertà veniva gestita in due modi: con la beneficenza privata o con il lavoro obbligatorio nelle cosiddette workhouse, un’istituzione tipica dell’era vittoriana. Entrambe le modalità lasciavano troppo spazio alla discrezione — spesso arbitraria — nel valutare lo stato di povertà di una persona e il suo possibile rimedio

Mill mirava a sbarazzarsi di entrambi gli approcci. “i dispensatori di pubblica assistenza non hanno alcuna competenza come inquirenti “, sentenziò. Mill si fece così promotore del progetto di garantire a tutti un reddito di sussistenza, ma niente di più che di sussistenza. Voleva mettere al sicuro “tutte le persone contro l’assoluta necessità”, ma questo reddito minimo di sussistenza doveva essere reso “meno desiderabile della condizione di coloro che trovano sostegno da soli”.

La scuola austriaca

Sebbene i sostenitori dell’idea nel 20° secolo, compresi i membri del Partito laburista britannico, fossero statalisti convinti, non si sarebbe potuto dire lo stesso di un altro convertito all’idea dell’UBI: l’economista libertario Friedrich Hayek.

Come i suoi predecessori, il premio Nobel credeva che l’UBI dovesse essere un minimo indispensabile; qualcosa di più avrebbe comportato “il controllo o l’abolizione del mercato”.

Hayek pensava che “la garanzia di un certo reddito minimo per tutti, o l’individuazione di una condizione sotto la quale non si è in grado di provvedere a se stessi” era “del tutto legittima” e una “necessità” della società moderna. Ma Hayek, però, non tradusse in un progetto istituzionale questa sua convinzione.

A farlo fu l’economista dell’Università di Chicago, e premio Nobel a sua volta, Milton Friedman. Come Hayek, aborriva i programmi di welfare del governo, che combattevano la povertà attraverso un’elaborata trama di provvedimenti come buoni pasto, sussidi per l’alloggio e altre misure basate sui bisogni primari. Friedman voleva spazzare via tutto questo, sostituendolo con qualcosa che definì una “imposta negativa”. Cioè uno strumento di politica fiscale sui redditi individuali

Il funzionamento dell’imposta negativa è semplice: per quei contribuenti al di sotto di una determinata soglia di reddito, definita minimo imponibile, l’imposta si trasforma in un sussidio. Friedman riteneva che la soglia avrebbe dovuto essere “abbastanza bassa da fornire alle persone un incentivo sufficiente per uscire dal programma e cercare un lavoro”. Come contrapartita, qualsiasi altro tipo di assistenza pubblica avrebbe dovuto essere abolito.

I costruttori della Great society

Altri sostenitori di un reddito universale di base negli anni ’60 e ’70 avevano filosofie politiche differenti da Friedman. Come Friedman, però, ritenevano che il sistema di welfare esistente fosse superato.

Uno di questi era lo storico ed economista John Kenneth Galbraith. Nel 1966 intervenne sull’idea del reddito minimo come imposta negativa. Scrisse a proposito:

Questo sistema di welfare non potrebbe essere meglio progettato per distruggere ogni tipo di incentivo desiderato. Prima diamo soldi ai bisognosi e poi glieli togliamo se il destinatario ottiene anche il lavoro peggio retribuito. Non è così che deve funzionare, il reddito da lavoro deve sommarsi a quello fornito dall’UBI.

Molto meglio, secondo Galbraith, era prevedere un contributo minimo per tutti lasciando a coloro con la volontà di lavorare la possibilità di integrare questo reddito di base con gli introiti del loro lavoro. Nel 1968 un migliaio di economisti presentò una petizione al Congresso a favore dell’idea di Galbraith. La Commission “Income Maintenance Programs”, istituita dal presidente Lyndon Johnson nel 1969, fornì un ulteriore appoggio alla proposta

La Commissione propose di eliminare l’attuale sistema di previdenza sociale, sostituendolo con un “Programma di sostegno al reddito di base” basata sul concetto di imposta negativa sul reddito di Friedman. La proposta non era una misura di welfare, ma non lo era neppure di workfare.

Non riteniamo auspicabile — concludeva il rapporto — mettere nelle mani di un’agenzia governativa la decisione se un individuo debba lavorare quando questa decisione può essere lasciato all’individuo e agli incentivi del mercato.

Era un’idea radicale, che ridimensionava fortemente il potere dello Stato di dettare i termini del servizio.

Nixon e McGovern

Nello stesso anno, Richard Nixon assunse la presidenza e la nuova amministrazione confermò il progetto di reddito minimo, ma vi aggiunse il requisito del lavoro. La nuova proposta, nota come Piano di assistenza alla famiglia, alla fine morì al Congresso perché includeva il peggio di entrambi le filosofie: denaro elargito con prodigalità agli immeritevoli e l’intrusione del governo.

Il candidato democratico George McGovern rilanciò l’idea nella campagna presidenziale del 1972, proponendo un piano per il reddito di base universale soprannominato il “demogrant”. Il demogrant si proponeva di elargire 1000 dollari all’anno a ogni uomo, donna e bambino americano.

In realtà, il concetto alla base del demogrant era simile a quello dell’imposta negativa di Milton Friedman e dall’amministrazione Nixon nel citato Piano di assistenza familiare, che prevedeva un sussidio familiare minimo di 1.600 dollari per anno, successivamente aumentato a 2.400.

McGovern aveva precedentemente appoggiato un disegno di legge, presentato dalla National Welfare Rights Organization, per un reddito minimo annuo di 6.500 dollari garantito alle famiglie. Ma il demogrant differiva da tutti questi programmi perché andava a tutti e non era basato sui bisogni. Nixon accusò, con successo, il demogrant di essere una concessione agli immeritevoli e McGovern lasciò cadere il progetto.

Progressisti e miliardari insieme

Oggi l’idea del reddito universale di base è tornata a dare breccia sotto la spinta di un’improbabile coalizione di soggetti: progressisti desiderosi di rilanciare la “guerra alla povertà” e miliardari libertari della Silicon Valley.

L’entusiasmo sembra essersi esteso a tutto il mondo, in particolare all’India e, più ovviamente, alla Finlandia dove già esiste una fitta rete di servizi di welfare. In questo paese si è concluso a dicembre 2018 un esperimento durato due anni che ha dato risultati non univoci.

Forse c’è spazio per un grande compromesso del tipo immaginato da Mill, Friedman, Galbraith e altri: un reddito di base universale che porti alla fine dei tradizionali programmi di welfare. Ma se UBI diventa l’ennesimo ibrido di welfare e workfare, la storia suggerisce che è destinato a fallire.

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