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Raccontare la scienza, perché non tutti i giornalisti possono farlo?

Lo scenario attuale della comunicazione scientifica vede, da un lato, un pubblico desideroso di ottenere spiegazioni dettagliate sui temi più disparati, dall’altro ricercatori e istituzioni che fanno fatica a trovare linguaggio, canale e modalità per far arrivare i giusti messaggi alla popolazione. Nel mezzo ci sono i giornalisti, che non possono essere preparati in ciascun campo specifico. Per questo esiste la figura del giornalista scientifico.

Raccontare la scienza, perché non tutti i giornalisti possono farlo?

La comunicazione della scienza è sicuramente un aspetto delicato dell’attività di chi si occupa di fare informazione. L’obiettivo principale della comunicazione scientifica è senza dubbio quello di riuscire nel difficile compito di informare i non esperti sulle scoperte scientifiche. Così come esistono giornalisti specializzati in economia, sport, spettacolo, moda, cronaca giudiziaria – solo per fare alcuni esempi – anche nel caso della scienza, c’è la possibilità, per i giornalisti, di specializzarsi in notizie che provengono da questo particolare e complesso mondo. Eppure, mentre talune specializzazioni del giornalismo sono imprescindibili all’interno di una redazione che intenda coprire quei precisi settori dell’informazione, l’informazione scientifica viene ritenuta troppo spesso un terreno entro il quale sia possibile muoversi senza un background specifico. Si ritiene in sostanza che, diffondere un’interpretazione scorretta di una fonte scientifica faccia meno danni dell’imperizia di un redattore generico che scrive di calcio, di serie tv o di successioni al soglio papale.

Le conseguenze di questo approccio al giornalismo scientifico appaiono evidenti laddove gli editori di giornali e riviste, online e cartacei, non ritengano importante dotarsi di una figura professionale specializzata. Con il diffondersi della pandemia di Covid-19, ad esempio, è stato possibile toccare con mano la rinascita, la proliferazione e il mai sopimento di quella patologia cronica dell’era digitale del giornalismo che va sotto il nome di “information disorder“, che è figlia proprio di questa mancanza di professionalità e specializzazione. Tale scenario ha visto quindi la spontanea fioritura di notizie distorte, quando non completamente false, a volte con pericolose sponde a livello istituzionale.

Per quale motivo, allora, se i disastri della comunicazione scientifica scorretta sono oggi così evidenti, non si corre immediatamente ai ripari e si risolve definitivamente la questione? Mai come in questo caso vale l’aforisma “la strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”. Ogni lodevole iniziativa, infatti, si scontra con il retaggio culturale della tradizione del giornalismo scientifico italiano, che ha sì una storia molto antica, ma questa è fatta di pubblicazioni elaborate da esperti, destinate – de facto – ad altri esperti. Elitarismo allo stato puro, ovvero ciò che più di ogni altra cosa fa fuggire i lettori dalla lettura e li fa dubitare delle fonti di informazione fino a sfociare nel complottismo.

La soluzione migliore è pertanto quella di un nuovo paradigma della comunicazione. Partendo da un modello che ha puntato a colmare il deficit di informazione secondo uno schema top-down, cioè travasando il sapere scientifico dagli esperti alla popolazione e che ha forse esacerbato l’avversione per la scienza, si approda ad un modello cosiddetto “del dialogo“, dove i destinatari della comunicazione non sono contenitori vuoti da riempire, ma soggetti dialoganti con i quali negoziare modi e tempi dell’accoglimento delle informazioni scientifiche. Grazie all’esperienza di molti divulgatori scientifici e grazie anche al banco di prova rappresentato da eventi straordinari come il Covid, ultimamente si sta facendo sempre più strada il “modello della partecipazione“, grazie al quale scienziati e pubblico vengono letteralmente coinvolti nei processi di ricerca e l’interazione si avvale finanche dell’aspetto ludico.

Riuscire a muoversi in questo ambito, utilizzando le tecniche perfezionate nel tempo, non è mestiere per improvvisati, anche se si tratta di giornalisti professionisti o pubblicisti. Oltre al rischio di ignorare l’evoluzione paradigmatica appena descritta, un giornalista che non abbia le giuste competenze e una documentata esperienza in ambito scientifico divulgativo potrebbe illudersi di poter affrontare qualunque argomento solo in virtù della propria attività di lungo corso.

In Italia esistono delle associazioni che mirano a favorire la divulgazione scientifica e tecnica attraverso i media, impegnandosi in attività come convegni, seminari e giornate di studio; incontri con scienziati e ricercatori italiani e stranieri; visite presso laboratori, centri di ricerca, complessi industriali in Italia e all’estero. L’UGIS (Unione dei Giornalisti Italiani Scientifici) è una di queste associazioni ed anche tra i soci promotori dell’EUSJA (European Union of Science Journalists’ Associations) e della WFSJ (World Federation of Science Journalists). Un’altra associazione, aperta a giornalisti, editor, comunicatori della scienza e blogger è, ad esempio, SWIM (Science Writer in Milan, in Italy) o, nel campo delle scienze mediche, UNAMSI (Unione Nazionale Medico Scientifica d’Informazione). Queste sigle corporative, oltre a mantenere un elenco dei propri membri e a vigilare sul rispetto delle norme per l’appartenenza, sono molto attive nel campo della formazione specifica e rappresentano un valido aiuto per acquisire gli strumenti del mestiere.

Francesco Paolo de Ceglia, docente di Storia della scienza presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro definisce* in questo modo i ruoli che il divulgatore scientifico è chiamato a svolgere:

1 – Traduttore e semplificatore
2 – Combinatore e sperimentatore di linguaggi
3 – Mediatore tra saperi ed esperienze diverse
4 – Sostenitore critico delle ragioni della scienza o almeno della razionalità
5 – Ricercatore denunciante
6 – Creatore di immagini ed emozioni
7 – Intrattenitore
8 – Produttore di ricchezza

Come “traduttore e semplificatore“, il divulgatore scientifico – di base – studia tutto quello che gli è possibile studiare su un argomento, a vari livelli di approfondimento. Quindi cerca di individuare il nucleo tematico di tutte le informazioni acquisite e lo rende comprensibile a tutti. Si serve di metafore e analogie, chiarisce l’inconsueto e astratto con il familiare e concreto. Traduce il linguaggio tecnico con uno che sia alla portata di più persone.

Come “combinatore e sperimentatore di linguaggi” mescola varie forme di comunicazione in base al contesto. Modula registri, a seconda delle occasioni e delle platee che lo ascoltano. A volte – come si è detto più sopra nell’articolo – alterna fasi didattiche a fasi ironiche e ludiche.

Come “mediatore tra saperi ed esperienze diverse” dà spazio ad una opportuna interazione nonché ad un equilibrato scambio di battute tra tutti gli interlocutori di una determinata questione: medici, biologi, filosofi, teologi, sociologi, psicologi, ecc.. Questo non significa far dialogare e dare lo stesso peso a posizioni non parimenti fondate e/o condivise, ma significa preservare il dibattito dalle accuse di oscurantismo, qualora non si tenesse sufficientemente conto della scienza, e da quelle di scientismo qualora si prescindesse dalle sue interazioni col mondo. Il divulgatore scientifico deve assolvere anche al difficilissimo complito di non far apparire la comunità scientifica spaccata a metà, quando non lo sia davvero. Obiettivo che si persegue evitando la prassi dei talk-show televisivi dove agli ospiti, che siano esperti in una materia o che non lo siano, viene attribuita la medesima autorevolezza scientifica. Ciascuno dei partecipanti va invece identificato nel proprio ruolo, quindi valorizzato per il contributo
originale e fondato, sia scientifico sia esperienziale, che può donare alla discussione.

Come “sostenitore critico delle ragioni della scienza o almeno della razionalità“, sulla base della sua formazione scientifica, non ha solo il compito, in quanto coscienza critica, di demolire la scienza e di scoprire “l’anello che non tiene”, ma deve farsi carico di far valere le ragioni della scienza (quando la
scienza ha ragione) contro l’impostura intellettuale.

Come “ricercatore denunciante” ha il potere di denunciare eventi o situazioni, sottoponendoli all’attenzione dell’opinione pubblica. Non attende dunque necessariamente l’arrivo di un comunicato stampa, per costruirci sopra un articolo: l’indagine condotta dal reporter funge talora da primum movens, scoprendo quella notizia che talvolta si vorrebbe tener nascosta.

Come “creatore di immagini ed emozioni” ha bisogno di conferire una valenza narrativa al suo discorso, ma deve al contempo rendersi conto della responsabilità civile e culturale che tale operazione comporta, specialmente in situazioni di rischio. Anche la scienza deve poter contare su divulgatori appassionati che trasmettono tutto il fascino di cui sono dotate le scoperte scientifiche.

Come “intrattenitore” ha un obbligo estetico da rispettare, attraverso l’ironia, la bellezza delle immagini di cui si serve, il gioco. La scienza non deve essere noiosa, tantomeno può esserlo chi ne parla.

Come “produttore di ricchezza” ha come scopo quello d’intercettare un segmento di mercato, colmarlo col proprio prodotto, ottenendo utili. Il progetto culturale ha, in altre parole, un senso solo se plasmato a ridosso di una strategia di mercato. Il giornalista scientifico ha pertanto il dovere contrattuale di realizzare prodotti vendibili. Da questo punto di vista ha anche un suo appeal commerciale.

*cfr.: Francesco Paolo de Ceglia, “Prometeo non abita più qui” (DOI: 10.7369/71762) – Quaderni di didattica della scrittura (ISSN 1825-8301) – Fascicolo 1, gennaio-giugno 2006

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