Condividi

Processare Milano non aiuterà il riscatto del Sud

L’incredibile recriminazione del ministro Provenzano su Milano è il segno di un meridionalismo alla deriva che non fa i conti con le vere cause del mancatoi sviluppo del Sud e alimenta solo vittimismo, rancore e assistenzialismo – Le quattro tappe del fallimento della politica meridionalistica .

Processare Milano non aiuterà il riscatto del Sud

L’idea che il Mezzogiorno non cresca a causa della “rapacità” di Milano che tutto incamera senza nulla restituire è una evidente sciocchezza. Che ad enunciarla sia stato il Ministro per il Mezzogiorno Giuseppe Provenzano dispiace, così come è motivo di sconforto che a suggerirglielo sia stata la Svimez.

Ma il fatto che al coro delle recriminazioni si sia ora aggiunta anche Roma supera davvero la soglia del ridicolo. La verità è che nessuno ha rubato nulla a nessuno, nè al Sud nè a Roma, e se quest’ultima sta precipitando nel baratro non è certo a cagione di Milano ma, come canta Norma nell’omonima opera di Bellini, è ”a cagion dei vizi suoi” (leggi: l’abissale incompetenza della giunta pentastellata). 

Questa evidente sciocchezza cela però una amara verità, ed è la spaventosa regressione del pensiero meridionalista che l’ha generata. Di quale meridionalismo si tratta? Non certo di quello democratico il quale, nella sua versione liberale come in quella socialista e comunista, ha sempre ricondotto il sorgere della “questione meridionale” alla mancata rivoluzione liberale.

Al fatto cioè che l’unificazione del Paese non si è accompagnata ad una politica di profonde riforme economiche, sociali ed istituzionali quanto, piuttosto, ad una politica di accomodamento e di consolidamento dello status quo. E’ stata la mancanza di riforme capaci di contrastare la rendita, di ridimensionare il ruolo dei ceti parassitari, di riformare l’agricoltura, di incoraggiare l’imprenditorialità privata e di favorire la creazione di un mercato nazionale trasparente e concorrenziale che ha determinato il sorgere della “questione meridionale”.

Ed è precisamente per questa ragione che, ora come allora, questa questione può risolversi soltanto nel quadro di un rinnovamento generale del Paese: un rinnovamento non solo economico, ma anche politico e culturale. Quella che è venuta meno è proprio la consapevolezza di questo nesso, sia nella coscienza delle classi dirigenti nazionali che in quella delle popolazioni meridionali, soprattutto dei più giovani. Come è potuto accadere? 

Il primo passo in questa direzione è stato quando si è passati dall’idea che l’intervento dello Stato dovesse avere carattere straordinario (cioè eccezionale e provvisorio) all’idea che dovesse avere invece un carattere sistematico (cioè ordinario e permanente). In altre parole, quando si è passati da una concezione liberale ad una statalistica.

Il secondo passo è stato il passaggio dall’idea che gli investimenti pubblici dovessero rivestire un carattere strategico, essere cioè mirati a precisi obbiettivi di interesse generale (acciaio, energia, chimica di base, telecomunicazioni, ferrovie, etc..) che solo lo Stato poteva realizzare, ad investimenti dettati invece da contingenti esigenze politiche (le fibre ad Ottana per contrastare il banditismo, ad esempio) sino a quelli imposti per ragioni clientelari (in Abruzzo con Gasparri o in Irpinia con De Mita).

La regola aurea del “market if possible, State if necessary” (il mercato se possibile, lo Stato solo se è necessario) si è rapidamente trasformata nella formula tutta italiana “lo Stato sempre e ovunque se a chiederlo è la politica”. L’esito di questa svolta è stato, negli anni novanta, il fallimento dell’Efim e successivamente  la svendita obbligata di gran parte delle imprese partecipate, quasi tutte in condizioni fallimentari.

Il terzo passo è stato il passaggio dai Contratti di sviluppo, cioè degli accordi fra lo Stato e gli imprenditori per co-investire in impianti industriali nel Mezzogiorno, come nel caso della Fiat di Melfi e della Saras di Cagliari, ai Patti Territoriali. In questo caso la responsabilità di selezionare i progetti non competeva più allo Stato ma ai comitati locali che li promuovevano nella speranza di risvegliare per questa via gli ”animal spirits” latenti nel loro territorio. Il risultato è stato però più che deludente. Giuliano Amato a suo tempo definì questa politica “la politica delle cento padelle“, e questo dice tutto. 

L’ultimo e più disastroso passo è stato però l’approdo all’assistenzialismo. Abbandonata ogni velleità programmatoria la politica meridionalistica si è ridotta sempre di più a distribuire sussidi, pagati ancora una volta in debito. Il Reddito di cittadinanza non è che l’ultima e più pericolosa manifestazione di questa rovinosa tendenza. 

Come è possibile che il Mezzogiorno delle grandi lotte operaie e contadine   per la terra, il lavoro e lo sviluppo sia diventato la terra d’elezione di tutti i movimenti contrari allo sviluppo, sia esso sostenibile o meno? Una risposta a questa domanda cerca di darla Luca Ricolfi nel suo ultimo libro “La società signorile di massa”. Secondo l’economista torinese si è formata,  soprattutto nel Mezzogiorno, una “classe disagiata”, composta prevalentemente da giovani, la quale non trae le risorse per vivere dal suo contributo alla creazione del profitto ma dalle rendite (soprattutto quelle piccole: le pensioni dei genitori, i beni mobiliari ed immobiliari faticosamente acquisiti, i sussidi, etc..).

E’ una classe che, essendo nella sua grande maggioranza priva degli strumenti culturali necessari per emergere (titoli di studio cui corrispondano competenze reali, aspettative salariali che siano parametrate alla produttività, etc..) e faticando a trovare il lavoro cui ambiscono, alimenta il vittimismo e talvolta il rancore. Non è una classe derelitta ma impoverita.  

Il Mezzogiorno, scrive Ricolfi, non è ancora una società pienamente opulenta, ma è una società inoperosa, mentre il Nord è una società opulenta ma è operosa. In altre parole, il Mezzogiorno vive al di sopra delle sue possibilità, consuma più di quanto produca, ma questo fatto lungi dal favorire un movimento per lo sviluppo sembra anzi alimentare una ideologia che non considera più il lavoro, la competenza, il merito e la crescita come dei valori primari ben sì come disvalori.

Se questa ideologia dell’incompetenza, del vittimismo e del rancore, che è poi quella sulla quale i 5 Stelle hanno creato la loro fortuna, dovesse davvero radicarsi nelle masse e fra i giovani allora potrebbe trasformarsi, come diceva Marx, in una forza materiale difficile da estirpare. E se così fosse, allora davvero del meridionalismo democratico fondato sull’idea delle riforme e del lavoro non resterebbe più nulla.

Commenta