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Primarie Usa verso il rush finale: il borsino dei candidati

Hillary Clinton e Donald Trump sono sempre in testa: se le primarie finissero oggi, sarebbero loro a contendersi la Casa Bianca a novembre – Ma non è ancora fatta, soprattutto per il magnate: perse le speranze di rilanciare Ted Cruz, il partito proverà in tutti i modi a non fargli raggiungere la maggioranza al Congresso di luglio – Sul fronte Dem cresce il consenso per il socialista Sanders, ma la rimonta sull’ex First Lady sarebbe un miracolo.

Primarie Usa verso il rush finale: il borsino dei candidati

“Sì, Donald Trump ci sta trollando. Ma questo non significa che vada ignorato”: l’ironico titolo di un editoriale del Washington Post rende perfettamente l’idea di come sta procedendo la campagna elettorale delle primarie repubblicane: un uomo solo al comando, che trolla (=prende in giro) gli avversari continuando a ottenere consensi contro tutto e tutti. “Trump insulta i messicani e sale nei sondaggi (in quelli repubblicani, almeno). Vuole cacciare i musulmani dagli Stati Uniti e sale nei sondaggi. Dice che i militari dovrebbero torturare i sospetti terroristi e uccidere le loro mogli e i loro figli, e sale nei sondaggi”, scrive ancora il quotidiano di proprietà di Jeff Bezos.

L’ultima sfida prima di Pasqua (gli elettori del Grand Old Party torneranno alle urne il 5 aprile nel Wisconsin) ha visto il magnate 70enne incrementare ulteriormente, anche se di poco, il suo vantaggio sul senatore del Texas Ted Cruz, l’uomo sul quale l’establishment del Partito repubblicano gioca tutte le sue carte per togliersi dall’imbarazzo del tornado Trump: l’imprenditore immobiliare si è aggiudicato i 58 delegati dell’Arizona, mentre i 40 dello Utah sono andati allo sfidante. La classifica generale vede Trump davanti con 738 delegati contro i 463 di Cruz: si vince la nomination per la convention di giugno arrivando a 1.237, e non bisogna essere degli assi in matematica per capire che, con soli 848 delegati ancora da assegnare nelle prossime tappe, l’unico che può realisticamente raggiungere il quorum è proprio il candidato – unico nell’intero panorama statunitense – ad aver inserito nel suo programma l’espulsione degli immigrati clandestini (proposito che piace solo al 37% persino tra i soli elettori repubblicani).

Trump, noto per i suoi propositi non proprio pacifisti (è anche contrario alle restrizioni per il porto d’armi, strenuo sostenitore della pena di morte e ha ricevuto l’imbarazzante endorsement dell’ex grande capo del Ku Klux Klan) ha anche approfittato degli attentati di Bruxelles per tornare a imbarbarire il dibattito politico: dopo le note intenzioni di erigere un muro al confine col Messico e l’assoluto rifiuto di offrire l’asilo politico anche a un solo profugo siriano, il Berlusconi d’Oltreoceano (definizione molto in voga presso la stampa internazionale) ha tenuto a dire in un’intervista a Fox News che “questi attacchi non sono portati a termine dagli svedesi, francamente è con gli arabi che abbiamo un problema”. Poco importa se recentemente l’Economist Intelligence Unit lo ha anche inserito (per la prima volta questo “riconoscimento” è spettato a una singola persona) tra i 10 maggiori rischi per l’economia globale nel 2016: a meno di un mese dalla tappa delle primarie di New York (19 aprile), che vale da sola quasi 100 delegati, un sondaggio del Boston’s Emerson College ha rivelato che nello Stato della Grande Mela Trump è in vantaggio con quasi il 65% delle intenzioni di voto, con un distacco di oltre 50 punti percentuali da Ted Cruz fermo a 12% (il sondaggio è stato condotto prima che un altro candidato, Marco Rubio, uscisse di scena). “Trump cavalca una rabbia che in realtà è stato lo stesso GOP ad alimentare per decenni: è un prodotto della stessa ideologia repubblicana. Ora l’establishment è scioccato nel vedere un candidato che gioca allo stesso gioco, ma senza modestia, correre da vero e proprio front-runner“, ha osservato l’economista premio Nobel Paul Krugman sulle colonne del NY Times.

L’unica speranza per il Partito repubblicano di sbarazzarsi del suo figlio indesiderato è la California: secondo le proiezioni del New York Times, se Cruz dovesse vincere la tappa del 7 giugno potrebbe sottrarre all’avversario la quasi totalità dei 172 delegati in palio (nelle primarie repubblicane in molti Stati valgono i criteri del winner-take-all o del winner-take-most), impedendogli di raggiungere la maggioranza alla convention di luglio che designerà colui che andrà a correre per la Casa Bianca. In caso contrario, sarebbe la prima volta dopo più di 60 anni (dall’elezione di Dwight Eisenhower) che un candidato venga scelto direttamente dal congresso al termine delle primarie, e questo riaprirebbe tutti i giochi: anzi, è quasi scontato che il Grand Old Party farà qualsiasi cosa per impedire la nomina dell’uomo che nutre simpatia per Vladimir Putin e che vorrebbe isolare gli Stati Uniti sia politicamente che economicamente. “La corsa delle Primarie repubblicane – ha sintetizzato The Economist – inizialmente sovraffollata (in un primo momento i candidati erano 13, contro i tre del Partito democratico diventati ben presto due, ndr), è ora ridotta a un unico duello principale: quello tra Donald Trump e quelli che cercano di impedirgli di arrivare a quota 1.237 delegati”. E proprio così si sta svolgendo la (piatta) campagna elettorale di Cruz: anti-trumpismo prima di tutto, e poi alla ricerca del tipico elettore conservatore dell’America ricca, profondamente religiosa (nello Utah mormone ha raccolto il 71% delle preferenze) ma più moderata.

DEMOCRATICI

Molto più tranquilla, almeno dal punto di vista dialettico, la sfida sul fronte democratico. Hillary Clinton ha consolidato il proprio vantaggio nella penultima tornata vincendo la tappa più significativa, quella dell’Arizona (i democratici votavano anche in Utah e Idaho), anche se lo sfidante Bernie Sanders ha recuperato qualcosa in termini di delegati e soprattutto si è nettamente aggiudicato il round pasquale, vincendo in Alaska e Washington. Al momento ancora troppo poco per insidiare il primato dell’ex First Lady, che grazie anche ai superdelegates (l’establishment del partito che ha già deciso di sostenere lei, ma che può sempre cambiare idea) è avanti 1.689 contro 944: si vince a 2.383. Se Hillary dovesse mantenere il consenso dimostrato finora, sostiene il New York Times, si assicurerebbe la maggioranza dei delegati al congresso democratico già nella tappa delle primarie del 7 giugno, in California (con una settimana di anticipo rispetto al voto finale di Washington), dove vincendo porterebbe a casa buona parte degli oltre 500 delegati sul piatto. Per recuperare, il candidato socialista avrebbe invece bisogno da qui in avanti di vincere con una media del 60% dei consensi: circostanza alquanto improbabile, anche se il senatore del Vermont ha animato positivamente la campagna elettorale, forte di un programma rivoluzionario per gli States e del sostegno di parte della stampa, che ha quasi unanimemente riconosciuto che il Partito democratico non potrà non tenere conto del successo ottenuto dal 74enne di origine ebraiche.

Mentre Clinton, forte dell’endorsement (cauto) di Barack Obama, è la preferita tra la popolazione afro-americana (motivo per il quale sta dominando negli Stati del Sud) ma anche tra latinos, donne e fascia più anziana e di reddito più alta, Sanders è il favorito di uomini bianchi, giovani e fasce più disagiate della popolazione, dalla working class ai disoccupati. Il suo programma è dichiaratamente socialista e questa definizione, ha osservato il Washington Post, “non fa più paura alle giovani generazioni, libere dall’incubo della Guerra Fredda e che identificano il socialismo non con i regimi totalitari del passato ma con le egualitarie e progressiste democrazie del Nord Europa, in particolare scandinave”. La tendenza a riabilitare modelli economici diversi dal capitalismo a stelle e strisce cresce anche tra i più influenti economisti: “Pochi tra gli economisti di mercato – scrive Joseph Stiglitz nel suo ultimo libro, “La grande frattura” – hanno preso nota del successo delle economie di mercato gestite dall’Est asiatico. Hanno preferito parlare dei fallimenti dell’Unione sovietica, che rifuggiva del tutto dal ricorso al mercato”. Sanders propone dunque – ed è l’unico a farlo – il college gratuito per tutti (un piano da 75 miliardi annui finanziabile con una supertassa sulle operazioni finanziarie che hanno generato almeno 300 milioni di dollari di profitti); il minimo salariale da 15 dollari all’ora per rilanciare i redditi della middle class distrutta dalla crisi; la parificazione dei salari tra uomini e donne; misure per rivitalizzare il settore produttivo (in particolare un piano da mille miliardi per creare 13 milioni di impieghi, finanziabile attraverso una lotta senza quartiere contro evasione e paradisi fiscali), penalizzato dagli accordi di libero commercio (NAFTA su tutti) e da un’economia troppo condizionata dalle speculazioni di Wall Street e dalla Silicon Valley, che hanno generato enormi profitti per pochissimi; un sistema sanitario ancora più equo, che vada persino oltre l’Obamacare (attraverso una mini-tassa sul lavoro da 1,6 dollari a settimana); norme più restrittive per il porto d’armi. Su quest’ultima proposta, così come sulla cittadinanza agli immigrati e sulle tasse più alte per i più ricchi (proposito che piace all’84% degli elettori democratici e solo al 38% di quelli repubblicani), i due candidati hanno dei punti d’incontro, ma rimane per esempio il disaccordo sulla pena di morte, che Sanders vorrebbe abolire e Clinton no.

La moglie dell’ex presidente Bill, per quanto decisamente meno rivoluzionaria, sta tuttavia conducendo una campagna elettorale nettamente migliore di quella del 2008, quando fu sconfitta da Barack Obama, che divenne poi presidente degli Stati Uniti d’America per il primo dei suoi due mandati. Il Washington Post ha rilevato che dopo la tappa di dieci giorni fa in Michigan, Ohio e Florida, Hillary aveva accumulato oltre 200 delegati di vantaggio su Sanders, molti più dei soli 90 che Obama aveva su di lei 8 anni fa a quel punto della competizione. E anche la falla dell’elettorato maschile di razza bianca (soprattutto quello giovane) non dovrebbe preoccuparla più di tanto: “Alle ultime elezioni presidenziali – scrive The Economist – Obama era in svantaggio 40-60% contro McCain tra gli uomini bianchi, eppure ha vinto. Non solo: in un’ipotetica sfida contro Trump a novembre, Clinton ha ridotto il suo svantaggio in quella fascia di elettori a 43-48%, mentre a settembre i punti di distacco erano 15. Mentre il suo vantaggio tra l’elettorato femminile è consolidato sopra i 20 punti percentuali”. Il sondaggio citato è del Washington Post in collaborazione con ABC News ed evidenzia che gli elettori americani la preferirebbero al magnate anche sui temi dell’economia, dell’immigrazione e per le caratteristiche personali. Tutto sembra dunque portare, a novembre, a un terzo mandato di fila per un democratico alla Casa Bianca: non accadeva dagli anni 1933-1945, quando Franklin Delano Roosevelt fu eletto per ben 4 volte consecutive, restando in carica fino alla sua morte, nell’aprile del 1945 (un anno dopo la sua ultima elezione). Se dovesse essere Hillary Clinton a farcela, come sembra al momento probabile, allora sarà una donna a occupare la poltrona più importante degli Stati Uniti d’America: questo – in qualità di Presidente – non è mai successo.

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