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Politica industriale? Sì, ma non solo parole…

Un’agenda che cerchi di ridare vigore al sistema industriale italiano deve prima di tutto: diminuire la forbice tra il Nord e il Sud del Paese, trovare una risposta alla crisi dei grandi settori labour intensive, ripensare il ruolo delle grandi imprese pubbliche, puntare su nuovi grandi progetti-Paese e aumentare produttività ed efficienza generali.

Politica industriale? Sì, ma non solo parole…

Si torna a parlare di politica industriale. Finalmente, verrebbe da dire. Ma come sempre tra il dire e il fare… La realtà sono decenni di nulla, di laissez faire sgangherato, di mancanza di politica e di industria che arretra.

Anziché discettare se sia utile (o addirittura se esista) la politica industriale, forse sarebbe più utile elencare i problemi, condividerli il più ampiamente possibile e delineare tempi, modi e risorse per risolverli. Non è per “spirito pratico” che formulo questa proposta, ma per dare un senso alle parole ed evitare il rischio di una discussione “estiva”.

I nodi “industriali” che la “politica” deve affrontare, sono il precipitato di quelli già affrontati nel corso di tutto il secolo passato; le soluzioni allora individuate sono in crisi e in molti casi già collassate. Furono scelte importanti per l’Italia e per un intero continente. Le classi dominanti imboccarono strade che hanno consentito una crescita oggi esaurita. In alcuni Paesi sono già state imboccate strade nuove, da noi non ancora.

Avendo presente questi riferimenti, richiamo quattro argomenti più uno che ne rappresenta il contorno indispensabile.

1. IL GAP ECONOMICO E INDUSTRIALE NORD-SUD CRESCE.

Sono in crisi (per motivi non sempre identici) le soluzioni a suo tempo individuate per la crescita industriale del Mezzogiorno. Basti pensare ai grandi poli di sviluppo della industria di base: siderurgia, chimica, cemento tra le altre. In quelle aree spesso è rimasto solo il deserto economico e la disgregazione sociale; si pensi a Sardegna, Campania, Sicilia, alcune aree del Lazio e della Puglia.

Servono nuove idee e nuovi progetti quando invece, purtroppo, prevale la “pigrizia conservatrice”; si insiste a riproporre ciò che è andato in crisi non per il destino cinico e baro, ma perché le condizioni di 60/80 anni fa non esistono più e non si possono ricostruire se non a costi senza alcun senso economico e nemmeno sociale.

Di Sud, di crisi sistemica, di poli industriali obsoleti non si parla più o comunque non a sufficienza. Una domanda allora: si può fare politica industriale senza affrontare questo primo nodo? La domanda è retorica e la risposta è ovvia.

2. LA CRISI DEI GRANDI SETTORI LABOUR INTENSIVE 

E’ iniziata negli anni 80 con il settore tessile di base (filatura, tessitura, …), ha interessato gradualmente l’elettronica civile, i componenti e gli apparati TLC, il motociclo, l’arredamento ed ora è la volta dell’elettrodomestico. Un discorso a sé merita invece l’automotive in senso lato (non solo auto).

I settori ad alto contenuto di lavoro hanno caratterizzato lo sviluppo dell’Italia, hanno consentito la crescita della occupazione e del reddito utilizzando il “bacino di forza lavoro” dell Sud con e senza processi migratori. Oggi sono settori aggrediti “dal basso” da concorrenti dell’est europeo o asiatici e “dall’alto” da concorrenti tedeschi che occupano nicchie ad alto valore aggiunto e ad elevato impatto simbolico.

Che fare? Senza idee e senza interventi, la risposta è scontata, ma qualche esempio virtuoso c’è già (si pensi all’industria lombarda e marchigiana dell’arredamento) e va seguito a dimensione più ampia. Investimenti in ricerca e nella qualificazione dei mercati hanno reso possibile il cambiamento. Si è fatto leva sulla cultura della produzione di beni durevoli, per proporsi come leader mondiali di prodotti di alta qualità. Una politica industriale accorta deve far leva sulla cultura accumulata; le competenze ci sono, le imprese ancora vivono e un lavoro congiunto pubblico-privato nella ricerca sui materiali, nella innovazione di prodotto, nella automazione e nella integrazione sistemica dei prodotti, nelle azioni verso i mercati internazionali, può dare frutti importanti. C’è tempo per tutto questo? NO. Si deve fare in fretta per non disperdere il patrimonio.

3. IL TENUE RUOLO DELLA GRANDE IMPRESA PUBBLICA.

Le nostre grandi imprese “pubbliche” sono tutte quotate (ad eccezione di Fincantieri); operano nel mercato esattamente come le altre Società di capitali e questa scelta non è in discussione. Ma sono anche guidate da un management che, pur entro certi limiti, risponde agli indirizzi dell’azionista di maggioranza (ovvero del sistema Paese).

Orbene, da molto tempo non si assiste ad una azione “di sistema” che in altri Paesi sono regola indiscutibile, sia se svolti dalle strutture centrali o dalle strutture territoriali, come in Germania.

Fare sistema non significa che le imprese a controllo pubblico debbano acquisire aziende in crisi o addirittura senza futuro (come in queste settimane sento dire). Sarebbe una sciocchezza. Penso invece che Finmeccanica, Enel, Eni, ST Microelectronics, Fincantieri, ciascuna nel loro ambito, possono determinare ricadute su molti settori a loro contigui o funzionali sia attraverso azioni spontanee, sia attraverso azioni orientate. L’interesse generale deve prevalere sul profitto specifico, altrimenti perché non vendere anche la quota residua e lasciare che tutto funzioni secondo astratte regole di mercato? Insomma, non deve essere più possibile che una azienda cinese vinca una gara per aver fatto lo sconto maggiore e una impresa italiana (qualitativamente identica) fallisca. Il costo economico (e sociale) per il Paese é ben superiore al beneficio di una singola impresa “pubblica”.

Fare sistema, usando le leve che già ci sono: é un pezzo di politica industriale che va riscoperto e perseguito con forza e convinzione.

4. ASSENZA DI GRANDI PROGETTI-PAESE.

Se ne parla e se ne parlerà in continuazione, ma quasi mai si é fatto qualcosa. Ora ci sono scadenze molto precise e di grande impatto; penso all’Agenda Digitale che in autunno vedrà la luce anche in Italia ed alla annunciata preparazione del Piano Nazionale Energia.

Se non si perderanno nei meandri della Pubblica Amministrazione, potranno essere (soprattutto i progetti previsti nella Agenda Digitale) non solo una grande occasione di modernizzazione, ma uno strumento di politica industriale ad alto impatto. Non a caso l’industria delle TLC, dell’informatica e più in generale chi si occupa di innovazione guarda a quei progetti con grande interesse e speranza. Ricerca, innovazione, formazione ne costituiscono il presupposto, ma apparati, reti, sistemi saranno la ricaduta in termini di prodotti e servizi che miglioreranno la vita di tutti e daranno grandi opportunità di lavoro.

Ma l’approccio sistemico deve diventare un presupposto culturale e un fondamento costante di politica industriale. Da almeno 40 anni non vi sono progetti-paese, non vi è un approccio sistemico ai problemi della innovazione e dello sviluppo. La ripresa non ci sarà in Italia se in questa fase non si daranno indicazioni generali, linee guida, obiettivi generali di alto valore strategico, da raggiungere insieme.

5. PRODUTTIVITÀ’ ED EFFICIENZA GENERALI.

E’ l’ultimo punto, ma il più importante, della concreta agenda di politica industriale che ho delineato.

Mi riferisco alle carenze strutturali del nostro sistema industriale che nell’ultimo decennio si sono costantemente aggravate: deficit di produttività, modesti investimenti in R&D conseguenza anche della ridotta dimensione media delle nostre imprese, procedure burocratiche snervanti e presenza della criminalità nel processo economico.

Su queste materie il gap non si azzera in poco tempo, ma questa non è una scusa. Subito possono essere dati segnali importanti. Prima di tutto dalle forze sociali che, in un rapporto di stretta collaborazione con l’azione di Governo (che chiameremo come più ci piacerà: codeterminazione, concertazione, cooperazione), possono stringere un “patto per lo sviluppo” che sia operativo immediatamente e verificabile ogni sei mesi per correggerne le distorsioni.

Sindacati e Confindustria sono soggetti attivi di ogni politica industriale: si tratta di capire oggi se questa loro attività si traduce in scelte condivise, in obiettivi definiti, in azione concreta, oppure restano le giaculatorie quotidiane che, nel concreto, hanno concorso al degrado di una realtà non più sostenibile.

La domanda a cui rispondere è semplice: è possibile mettere sul tavolo crescita della produttività, crescita della occupazione, crescita degli investimenti, crescita della formazione professionale, crescita dell’industria nel Mezzogiorno, crescita dell’efficienza della P.A., crescita in generale?

Ognuno deve mettere su quel tavolo le proprie disponibilità, i propri “sacrifici” e cercare seriamente e con convinzione una intesa.

Sarebbe la migliore cornice per una politica industriale per l’Italia.

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