Condividi

Perché in Italia non esiste una Lvmh

L’acquisizione di Loro Piana da parte del colosso francese Lvmh ha suscitato le solite reazioni nazionalistiche nel nostro Paese, ma perché in Italia non è mai nato alcun polo finanziario-industriale in grado di fare analoghe operazioni nel lusso? – Ecco una serie di casi emblematici, a partire da quello di Prada.

Scippo o investimento? Gli italiani sembrano molto sensibili e nazionalisti quando si tratta di scandalizzarsi per l’acquisizione di un gioiello del made in Italy da parte di gruppi stranieri. Anche l’ultima cessione, quella di Loro Piana che passa sotto il controllo di Lvmh, è stata subito definita come l’ennesima scorribanda francese in terra italiana. E’ davvero così, e bisogna solo dolersene, o non si tratta piuttosto di un ulteriore investimento in una realtà di grande valore, quella della moda, l’unica che attira, da tutti i punti di vista, l’interesse internazionale?  Domandarsi perché non sia nato in Italia nessun polo finanziario-industriale in grado di fare analoghe operazioni nel lusso significa andare al cuore del nostro modello imprenditoriale.

A diventare un gruppo con più marchi di pregio ci avevano provato gli emiliani Burani, con strategie raffazzonate ed esiti fallimentari, come  anche il molisano Tonino Perna, che si era indebitato per acquisire Ferré, arrivando alla finale disfatta di It Holding. Per una breve fase era sembrato che perfino il gruppo Marzotto potesse percorrere la strada del grande polo italiano del fashion: era il periodo di Hugo Boss e del Valentino Fashion Group quotato in Borsa. Ma anche in quel caso, il passo ulteriore è stato quello di vendere al fondo Permira (che poi ha ceduto Valentino all’emiro del Qatar).

In Italia non sono nati dei veri “luxury group” capaci di aggregare storie merceologiche e creative diverse e accrescerne il valore rispettandone l’autonomia. Un caso emblematico è quello di Prada che, nel 1999, sembrava interessata a diventare un variegato polo del lusso creativo: in quell’anno, e fino al 2001, Patrizio Bertelli aveva via via acquisito Helmut Lang, Jil Sander, Church’s, Azzedine Alaia, Car Shoes, Genny e Byblos e una quota di Fendi. Il patron di Prada aveva perfino conteso la scalata di Gucci: era il 1999, ma dopo pochi mesi, e con una “simpatica plusvalenza” (come lo stesso Bertelli definì i 230 miliardi di vecchie lire) aveva ceduto il suo pacchetto di azioni a Lvmh (che poi perse la battaglia finale di Gucci con Ppr di Pinault). 

Era comunque il periodo in cui Bertelli pensava ancora di andare in Borsa con la forza di un grande gruppo multi-marchi: ma la caduta delle Torri Gemelle e del progetto di quotazione, insieme con il forte indebitamento accumulato, lo spinsero verso una strategia del tutto diversa. I marchi “estranei” furono tutti ceduti (tranne le calzature Church’s e Car Shoes) e la creatività di Miuccia Prada, insieme con una coraggiosa strategia di espansione commerciale sui nuovi mercati, hanno fatto crescere le linee Prada e Miu Miu tanto da consentire, due anni fa, la quotazione, a Hong Kong, di un gruppo fortemente connotato dalla propria identità creativa. Questo infatti è il punto: la strada italiana dello sviluppo delle aziende di moda segue la linea continua della creatività interna e non centra invece l’obiettivo appena se ne distacca. L’ipotesi è confermata da tutti i grandi successi italiani della moda.

Parliamo del gruppo Salvatore Ferragamo, capace di attrarre investitori in Borsa ma restio ad acquisizioni che, nel settore moda, si vadano ad aggiungere al marchio di famiglia. Ci riferiamo anche a Tod’s, grande successo di Della Valle, che ha pure i marchi Hogan e Fay ma anch’essi nati e sviluppati in casa. E infine, ultimo ma primo per importanza, il gruppo Armani, emblema di una risorsa creativa che non vuole mescolarsi né con la finanza né con altre storie aziendali. E’ noto che Bernard Arnault corteggi Armani sin dal 1998 e “re Giorgio” l’abbia ripetutamente usato per valutare il reale appeal della propria impresa. Il gruppo Lvmh è ritornato all’attacco varie volte e tuttora non demorde, fidando forse sull’età del fondatore (che sta per compiere 79 anni) e sulla mancanza di un vero erede. Il gruppo francese non è stato il solo a fare offerte che Giorgio Armani ha sempre respinto, c’è stato anche l’Oreal, suo partner nella cosmesi.

Ma perché lo stilista-imprenditore, oltre a rifiutare di vendere o di far spazio a un partner, non ha mai nemmeno scelto di trasformare il proprio gruppo in un grande polo internazionale del lusso? Perché anche lui, anzi lui soprattutto, ha mantenuto l’orgoglio delle proprie creature, l’individualismo dei suoi brand e delle sue linee, del suo lavoro insomma, la sua vera passione. Giorgio Armani diffida della finanza, e bisognerebbe domandarsi se non sia anche colpa del nostro sistema finanziario, non sopporterebbe di rendere conto agli azionisti ma neppure riuscirebbe a sviluppare con passione marchi non suoi, non generati dalla sua personale fatica creativa. Per lui, come per Prada, ma si potrebbero fare tanti altri casi, l’impresa della moda ha un valore strettamente legato alla propria storia creativa e imprenditoriale.

Se questa “sindrome italiana” ha esiti di gran successo nei casi citati, in molti altri invece non consente di raggiungere le dimensioni per un vero sviluppo sui mercati internazionali, gli unici che oggi garantiscano un buon giro d’affari. E così avviene che l’Italia sia oggi una miniera di diamanti, di aziende relativamente piccole, spesso con una completa filiera produttiva (quella di Loro Piana, per esempio, va dalla rete organizzata per l’acquisizione delle migliori materie prime ad una azienda tessile di grande livello e fino ai bei negozi di moda lussuosa) molto appetibile per coloro che, come i francesi, sanno gestire con rispetto la storia dei marchi italiani, conoscendo anche bene la nostra realtà produttiva visto che tutti, da Lvmh a Kering (ex Ppr di Pinault) producono nei nostri distretti. Perché il modello francese – anche questo va detto, come rovescio della medaglia – non dispone più, sul proprio territorio, delle fabbriche per la moda e il lusso.

Nota: Marchi controllati dai due principali poli francesi del lusso.

LVMH: Louis Vuitton, Christian Dior, Givenchy, Celine, Kenzo, Fendi, Pucci, Bulgari, Acqua di Parma, Cova, Loro Piana.

KERING (ex Ppr): Gucci, Bottega Veneta, Saint Laurent, Balenciaga, Stella McCartney, Alexander McQueen, Sergio Rossi, Brioni, Pomellato, Richard Ginori, Puma, Volkom.

Commenta