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Pensioni, che cosa ha veramente voluto dire la sentenza della Consulta su perequazione e ricalcolo

La recente sentenza della Consulta non considera del tutto illegittimo il taglio alla perequazione automatica delle pensioni ma ne contesta l’estensione ai trattamenti medio-bassi lasciando di fatto ampi spazi al Governo di rimodulare l’intervento e graduare i rimborsi – Alt ai contraddittori progetti di ricalcolo delle pensioni con il contributivo.

Pensioni, che cosa ha veramente voluto dire la sentenza della Consulta su perequazione e ricalcolo

E’ certamente giustificata l’attenzione rivolta  agli effetti finanziari della sentenza n.70 con cui la Consulta ha stabilito l’illegittimità della norma del decreto Salva Italia sul blocco della perequazione automatica delle pensioni superiori a tre volte l’importo del trattamento minimo. Ma prima di infilarsi nella lotteria dei numeri sarebbe bene interpretare correttamente le indicazioni che i “giudici delle leggi’’ hanno inteso dare al Governo e al Parlamento, mediante un provvedimento tanto significativo, con il quale la Corte si è assunta, consapevolmente, una grande responsabilità di fronte al Paese e ai suoi impegni sul piano europeo. La ricerca di una corretta interpretazione va compiuta tanto su di un versante tecnico-giuridico quanto su quello di indirizzo politico con riguardo ai principi fondamentali da cui il legislatore ordinario non può discostarsi, nel pur difficile equilibrio tra risorse disponibili e diritti sociali, il cui contenuto non può prescindere dalle condizioni economiche di un Paese e da quanto esse possono garantire in una determinata fase storica.   

Nelle motivazioni della sentenza (confermate nella dichiarazione con cui il Presidente ha voluto smentire la tesi della sua auto-applicatività) è evidente che esistono, da parte degli organi istituzionali competenti, ampi margini di iniziativa in grado non solo di ottemperare alle indicazioni della Consulta, ma di fare fronte, con ragionevolezza e sostenibilità, alle ricadute di carattere finanziario, riducendone e graduandone la portata. La Corte non ha ritenuto illegittimo l’intervento in sé (se lo avesse fatto avrebbe contraddetto la sua stessa giurisprudenza in materia), ma i suoi criteri e modalità. E’ bene ricordare, infatti, che nella Legge Finanziaria per il 2008 il Governo Prodi, nel quadro dell’attuazione del Protocollo sul Welfare del 2007 – per compensare l’assai discutibile obiettivo di correggere lo “scalone’’ di cui alla riforma Maroni – tagliò per un anno, ma con effetti permanenti  –  si trattò di un ammontare pari a 1,4 miliardi – la perequazione automatica sulle pensioni di importo superiore ad otto volte il minimo (allora circa 3,5mila euro mensili lordi). Vennero presentati anche allora dei ricorsi che la Consulta bocciò. Ora, ad avviso della Corte, il caso del 2011 presenta profili differenti, perchè la misura contenuta nel decreto SalvaItalia è intervenuta – in modo permanente – su trattamenti medio-bassi, tanto da mettere in discussione la loro adeguatezza. 

Così, se il Governo, con un provvedimento d’urgenza, rimodulasse il taglio applicandolo ad un multiplo più elevato del trattamento minimo, magari con un percorso graduale non si limiterebbe soltanto a ridurre  l’ammontare da restituire ai pensionati, ma, se un’operazione siffatta tornasse all’esame della Consulta, essa dovrebbe pronunciarsi ex novo e potrebbe anche riconoscere più equo, e quindi  ispirato a criteri di proporzionalità e di ragionevolezza, l’intervento. Si tenga presente che la restituzione della rivalutazione non è un fatto automatico e che gli interessati, in mancanza di una soluzione legislativa  e della relativa copertura finanziaria, dovrebbero citare l’Inps in giudizio; salvo il caso, peraltro problematico, macchinoso e praticamente teorico, di una class action (il sarchiapone del nostro ordinamento giuridico). Insomma, nessuno  si illuda di avere già in tasca quelle risorse se non verranno adottate misure idonee non solo sul piano economico, ma anche su quello normativo. Quanto agli aspetti di indirizzo politico, la Consulta, con questa sentenza, ha voluto esprimere un caveat ai tanti ‘’apprendisti stregoni’’ che non esitano a prendere a calci i diritti acquisiti, aggravando il clima di incertezza del futuro che grava sulle famiglie italiane e sulle loro scelte di vita. Siamo ormai alle ‘’liste di proscrizione’’ dei pensionati (come se  il 90% dei trattamenti erogati fossero ‘’profitti di regime’’) il cui assegno fu  liquidato con il calcolo retributivo, secondo le norme vigenti da quando, con la riforma del 1969 – fortemente voluta dai sindacati e dalla sinistra – fu compiuta la scelta di assicurare ai pensionati un trattamento equipollente alla retribuzione media percepita nell’ultimo periodo della vita attiva.

Neppure la riforma Dini-Treu del 1995 – dettata parola per parola dai sindacati al Parlamento – volle modificare completamente tale impostazione. In questi ultimi giorni è tornata ad emergere l’idea (cara al presidente dell’Inps Tito Boeri e non esclusa dal ministro Poletti) di rideterminare, con il calcolo contributivo, i trattamenti più elevati liquidati con il metodo retributivo, sempre che il loro importo non sia ‘’giustificato’’ dai versamenti effettuati. Ma un’operazione siffatta sarebbe ritenuta legittima dalla Corte Costituzionale? Crediamo che un grande “No’’ si possa leggere proprio nelle motivazioni della sentenza n.70. I sostenitori di questa tesi partono dal presupposto che il sistema retributivo abbia in sé una “rendita di posizione’’ non meritevole di tutela. Ma se così è, perché il ‘’crucifige’’ dovrebbe agire solo a carico delle pensioni più elevate? Non è, poi, il modello contributivo che di per sé penalizza le pensioni dei giovani; è la loro condizione di lavoro caratterizzata da un accesso tardivo nel mercato e una permanenza instabile e saltuaria che rende precaria anche la loro posizione contributiva. Mettendo a confronto i due sistemi non è vero, poi,  che tutti i vantaggi stiano nel retributivo e tutti gli svantaggi in quello contributivo.

Nel primo sistema, infatti, i lavoratori effettuano i versamenti sull’intera retribuzione percepita, ma il rendimento è pari al 2% per ogni anno di servizio fino a 45mila euro di stipendio. Per le quote eccedenti, invece, l’aliquota è decrescente. Nel retributivo, inoltre, la pensione è sottoposta ad un tetto massimo di 40 anni: quelli lavorati in più subiscono il prelievo sulla retribuzione, ma ‘’non fanno’’ anzianità. Nel regime contributivo, invece,  contano tutti i versamenti effettuati: chi ha lavorato più a lungo percepisce una pensione migliore, perché il  montante accreditato viene moltiplicato per un coefficiente di trasformazione più elevato in relazione all’età del pensionamento. I lavoratori con retribuzioni maggiori, inoltre, versano i contributi soltanto su di un massimale attualmente di circa 100mila euro l’anno (al di sopra non sono previste ritenute e, ovviamente, le quote ulteriori non sono considerate retribuzione pensionabile). Se qualche ‘’anima bella’’, allora, intende dare corso ad una laboriosa operazione di ricalcolo (per la quale mancano pure i dati di riferimento) dovrebbe tenere in considerazione anche i ‘’pro’’, non solo i ‘’contro’’. 

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