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Mp3, il formato audio un tempo popolare per gli appassionati di musica ma che oggi nessuno si ricorda più

L’MPEG-1 Audio Layer 3, più comunemente noto come mp3 è un formato che ha rivoluzionato il mondo della musica partendo da un istituto di ricerca e arrivando ad essere conosciuto praticamente ovunque nel mondo. Oggi, i maggiori fruitori di musica online, i giovani dai 24 anni in giù non hanno idea di che cosa rappresenti quell’acronimo, pur essendo tutt’ora la tecnologia utilizzata dalla maggior parte delle piattaforme di diffusione di musica digitale

Mp3, il formato audio un tempo popolare per gli appassionati di musica ma che oggi nessuno si ricorda più

Karlheinz Brandenburg, è questo il nome di chi, tra tutti, può essere considerato il padre dell’algoritmo di compressione Mp3. La storia del “Moving Picture Expert Group-1/2 Audio Layer 3” inizia negli anni ottanta a Erlangen, in Germania, quando il relatore della tesi di Brandenburg – il professor Dieter Seitzer – stava cercando di esplorare gli usi possibili delle linee telefoniche ISDN, che erano a loro volta una novità. In particolare, Seitzer si era concentrato sulla trasmissione di file audio e aveva pensato di incaricare Brandenburg di fare un po’ di ricerca. Brandenburg immaginò un nuovo modo per codificare e comprimere i segnali da trasmettere, utilizzando un sistema di “maschera psicoacustica”. Quando si ascolta della musica, infatti, i suoni più forti mascherano quelli più deboli. L’approccio di Brandenburg fu di sfruttare questo principio per trasmettere diverse frequenze musicali a diversi livelli di accuratezza, quasi eliminando i suoni non udibili.

Nel frattempo, in Italia, l’ingegnere elettronico Leonardo Chiariglione si era fatto promotore di un gruppo di esperti internazionali con l’obiettivo di standardizzare un formato per le applicazioni video digitali. Il gruppo, noto come “Moving picture expert group” (Mpeg), nel dicembre del 1988, pubblicò una “call for proposals”, ossia una richiesta a presentare proposte per completare la parte audio della propria codifica video. Da queste proposte derivarono tre diversi algoritmi di compressione audio, denominati “layer I”, “layer II” e “layer III”. Mentre i primi due confluirono nello stesso standard, il terzo layer fu quello al quale partecipò Brandenburg, in qualità di dottorando dell’istituto di ricerca Fraunhofer (consorziato insieme ad alcune aziende private come AT&T, France Télécom e Thomson Consumer Electronics). Lo standard fu finalizzato nel 1992 e, per un po’ di tempo, rimase uno strumento per addetti ai lavori. La sua applicazione principale era quella della compressione dei file audio per trasmettere registrazioni fra uno studio e l’altro. Un sistema sicuramente apprezzato dai tecnici che lavoravano nelle radio, anche perché bastava utilizzare l’encoder per ottenere un file “mp3” che rispettasse lo standard adatto alla trasmissione via Internet. La compressione e la decompressione era un’operazione facilissima e tutto sommato molto rapida. Nonostante questo l’mp3 venne ripetutamente rifiutato dalle aziende del settore e gli investimenti importanti venivano dirottati verso altri formati sviluppati direttamente dalle big tech dell’epoca. Inoltre, le prime versioni dell’algoritmo producevano un suono che faceva storcere il naso alle orecchie allenate di molti discografici, soprattutto quando si voleva ottenere un file che occupasse davvero poco spazio in termini di byte.

A questo punto, Brandenburg prese l’iniziativa di far realizzare un software completo, cioè qualcosa in grado di comprimere la sorgente audio, leggerla direttamente nel nuovo formato e quindi anche di “tornare indietro” al file che aveva generato l’mp3, chiaramente con una perdita di informazioni (tutte le frequenze audio tagliate). Il consorzio di cui faceva parte l’istituto Fraunhofer, a quel punto, fece l’errore – lo possiamo dire solo ora – di mettere il software in vendita su internet; poteva cioè essere acquistato da chiunque, online. A fare la “fortuna” definitiva dell’mp3 fu quindi una frode informatica: uno studente australiano, usando una carta di credito rubata, comprò il software, lo trasformò un po’ e lo ridistribuì gratuitamente. Era un’azione illegale, ma fu esattamente l’operazione che venne replicata da diversi studenti delle università americane che, nel 1997, potevano contare su connessioni ad Internet molto più performanti di quelle che si esistevano a livello domestico. I giovani di tutto il mondo iniziarono ad utilizzare quel software per generare file audio che era possibile condividere su Internet in funzione della loro esigua occupazione di spazio digitale. Da quel momento in poi nacquero i vari software per la condivisione peer-to-peer di file audio (e, successivamente, video) come Napster, eMule, LimeWire, Ares, Songr, fino ad arrivare alla tecnologia dei Torrent. Le major discografiche riuscirono ad arginare il fenomeno della condivisione tramite portali dedicati e, in alcuni casi andarono oltre, facendo chiudere le attività legate ai server delle piattaforme per il peer-to-peer; eppure, contrariamente alle loro attese, fecero aumentare l’interesse su quel particolare formato digitale. Arrivò il primo apparecchio per ascoltare musica in formato mp3, i siti web per scambiarsi musica gratuitamente si moltiplicarono, così come i processi in tribunale. Si arrivò allo sviluppo di software per impedire la copia dei file contenente musica protetta da copyright.

Oggi, nessuno più si preoccupa della condivisione di file mp3 perché si possono acquistare singolarmente ad un prezzo irrisorio, la maggior parte delle persone utilizza sistemi integrati al proprio smartphone per ascoltare la musica. È finita l’era degli iPod o di qualunque altro dispositivo dedicato unicamente alla fruizione di musica. A farla da padrone, in questo campo, è l’app Spotify, un servizio che offre lo streaming on demand di una selezione di brani di varie case discografiche ed etichette indipendenti. Lo stesso servizio è stato poi realizzato dalle app di Amazon, Apple, YouTube (Google), Deezer (Warner), SoundCloud e Qobuz. Questi sistemi sono diventati ormai praticamente perfetti, perché la tecnologia per la compressione dei file audio, derivata da quella dell’mp3, è assimilabile ad una tecnologia lossless, cioè senza perdite di dati.

Ma chi sono, attualmente, i maggiori fruitori di musica in formato digitale? I giovani sotto i 24 anni, lo dice l’Istat. Lo streaming è il Re indiscusso tra tutti i metodi di fruizione. Spotify può vantare, da solo, circa 248 milioni di utenti mensili e 113 milioni di abbonati. Questo significa che i giovani ascoltatori preferiscono scegliere autonomamente la musica da ascoltare, senza intermediazione di dj radiofonici o di algoritmi di presentazione delle playlist. Nonostante il formato mp3 sia alla base di un meccanismo totalmente autonomo di fruizione della musica, perché basta collezionare i propri brani e poi ordinarli in una lista preferita di successione, questo acronimo è quasi sconosciuto per le generazioni Zeta (1997-2012) o Alpha (dal 2013 a oggi). In queste fasce d’età c’è davvero poca consapevolezza del supporto e della tecnologia che ha fatto la storia della musica digitale e che tutt’ora rappresenta la chiave per avere a portata di smartphone tutta la musica che si desidera. Qualcuno ne ha sentito parlare in TV o dai discorsi dei genitori, ma è proprio l’argomento a destare poco interesse. Il motivo? Nessuno ha più l’esigenza di trasferire questi file audio. E, anche fosse, trasferire un file non compresso non è mai un problema, considerata la disponibilità di banda larga ormai ovunque sul territorio. Il rapporto di compressione dell’mp3 va da 1:10 a 1:3; un brano che, in formato originale, occupasse anche 100 MB non è un impedimento, anche per la più lenta delle ADSL. Inoltre, basta comunicare il titolo e l’autore del brano e chiunque sarebbe in grado di reperire lo stesso contenuto musicale immediatamente su qualunque piattaforma per smartphone. Un’eccezione potrebbe essere una produzione molto di nicchia o una registrazione personale, ma si tratterebbe pur sempre di un problema tecnico, non certo di chi ascolta le canzoni.

Un sondaggio fatto da FIRSTonline su un gruppo di ragazzi molto eterogeneo rispetto all’età, ma che ha interessato tanto gli studenti delle scuole superiori quanto quelli universitari, ha confermato questa totale trasparenza della tecnologia di fronte agli occhi degli utilizzatori finali. Alcuni ragazzi sono convinti che si tratti di un dispositivo che si usava in passato, come il grammofono o la tv in bianco e nero, qualcuno addirittura non ne ha mai sentito parlare e, a fare una ricerca su Internet, avrebbe dei dubbi sulla fonte da cliccare: quella che parla di un modello di scooter della Piaggio o quella che descrive un software dall’utilizzo non meglio specificato. C’è però, come era facile aspettarsi, una piccolissima eccezione: studenti universitari di facoltà scientifiche o neoprofessionisti del settore della discografia (dj). Un disk jockey, infatti, a prescindere dall’esperienza, porta con se i brani per la sua esibizione, rigorosamente in formato mp3, divisi per cartelle, in una chiavetta usb. Alcuni giovani, facenti parte del campione preso in considerazione, hanno dichiarato che i file mp3 sono il loro pane quotidiano. Li usano per creare mixaggi, per inviare dei sample delle proprie performance in consolle o per automatizzare la gestione della successione dei brani durante le serate in discoteca. Insomma, a confermare la regola – cioè l’oblio per questa tecnologia che tanto ha dato alla musica – sono quei rari casi di addetti ai lavori, più o meno giovani.

E pensare che, diversi anni fa, il formato lossy per eccellenza, cioè quello che fa perdere informazioni durante la compressione (dall’inglese “loss” = “perdita”), appunto l’mp3, è stato al centro di una diatriba apparentemente infinita per decretare quale fosse il giusto supporto da utilizzare per una riproduzione della musica ad alta fedeltà (Hi-Fi). I cosiddetti audiofili, già protagonisti di furibonde battaglie contro la diffusione dell’audio digitale, hanno condotto vere e proprie guerre – a volte contro le evidenze scientifiche – per sostenere la forma analogica della registrazione su vinile come la sola e più perfetta forma di registrazione ad alta fedeltà. Ma, mai come in questo caso, il tempo è stato maestro e oggi non si discute più su quale sia la forma migliore di registrazione, si ascolta la musica e basta. Fanno eccezione solo i fanatici e chi è affetto da disturbo compulsivo ossessivo nella ricerca di una perfezione che non esiste. Ogni oggetto, ogni tecnologia ha un valore nostalgico che non si può sottovalutare, ma è importante distinguere un dato valutabile in maniera oggettiva da quella che è semplicemente un’esperienza, un’emozione – soggettiva – e che non è in discussione.

Dal punto di vista scientifico, i principali requisiti per una riproduzione in alta fedeltà sono:

  • la resa di tutte le frequenze udibili, da 20 a 20.000 Hertz
  • l’assenza di distorsioni nella forma dell’onda di pressione
  • un intervallo dinamico capace di riprodurre fedelmente i suoni dai più flebili ai più intensi
  • un rumore di fondo tendente a zero

Tali requisiti sono tutti presenti nelle registrazioni digitali, mentre nel caso dei nastri magnetici o dei vinili manca un adeguato intervallo dinamico e la trascurabilità del rumore di fondo. Solo per fare un esempio: un compact disc copre mediamente 90 dB come range dinamico, mentre il migliore dei vinili arriva a 70 dB. Il rapporto segnale/rumore (SNR) è superiore a 90 dB per il CD, inferiore a 60 dB per il vinile. Il CD è dotato di vari sistemi di correzione degli errori che lo rendono immune dalle conseguenze di graffi, polvere e impronte, (entro limiti ragionevoli), quando invece non esiste vinile che non venga riprodotto con un solco che non è più quello originale.

Il vinile o il nastro magnetico riproducono l’onda sonora completa come emessa dalla sorgente, cioè in modo analogico (uguale all’originale), laddove la riproduzione in digitale legge un segnale campionato, ovvero registrato solo ogni quarantamillesimo di secondo (40.000 dati al secondo). La curva continua del suono originale si trasforma pertanto in una curva a scalini (in corrispondenza dei valori discreti campionati). L’orecchio umano non è in grado di accorgersi di tale differenza poiché non percepisce variazioni di segnale che avvengano al di sotto di 1/20.000 secondi. Lo hanno dimostrato anche diversi test condotti in doppio cieco, che miravano al riconoscimento – da parte di autoproclamatisi audiofili – di audio generato da un codificatore digitale, rispetto all’audio prodotto da un impianto analogico. Inutile dire che nessun essere umano è stato finora in grado di distinguere una registrazione digitale da una analogica (ovviamente ad un livello confrontabile di qualità di entrambe le sorgenti).

Tra l’altro, uno dei pregi del digitale è proprio quella possibilità di “compressione” dei file che ha reso popolare il formato mp3. Ognuno di noi potrebbe scegliere il proprio livello di soddisfazione, dal punto di vista dell’alta fedeltà di riproduzione e conservare la musica al corrispondente valore di bitrate (oltre che di qualità di codifica). Di fatto, quasi nessuno, al giorno d’oggi si fa questo tipo di problema. Cercare un’esperienza di alta qualità sonora non ha niente a che vedere con l’essere amanti della musica, come dimostrano molti musicisti di grande valore artistico che ammettono candidamente di ascoltare la musica sulle piattaforme di streaming, perfino utilizzando auricolari a basso costo. Per cui, in fin dei conti, l’unica cosa che conta è che si continui ad innovare, anche in questo campo, magari con un nuovo standard per la musica che dia nuove possibilità alle generazioni future.

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