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Meeting annuale Fmi: si apre tra veleni e guerra sui numeri

È guerra sulle statistiche del Fondo monetario: gli Usa accusano Georgieva di avere favorito la Cina e ne chiedono le dimissioni. Ma l’Europa resiste mentre a Washington prende il via la riunione annuale insieme alla Banca Mondiale

Meeting annuale Fmi: si apre tra veleni e guerra sui numeri

Attenti a dare i numeri. Dietro l’imparzialità delle cifre, spesso, c’è l’inghippo. Anzi, l’inganno. E’ il sospetto che dominerà quest’anno la riunione d’autunno della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale, investiti dall’accusa che, come sostiene il gabinetto indipendente Wilmer Hale, le classifiche del rapporto “Doing Business 2018” siano state falsate ad arte dal segretario generale Kristalina Georgieva, l’economista bulgara che ha preso il posto di Christine Lagarde. Il motivo? Favorire la Cina, peccato mortale di questi tempi agli occhi di Washington. 

Non è questione di poco conto, come dimostra il fatto che gli Stati Uniti ed il Giappone (il secondo contribuente del Fmi) intendono chiedere per la seconda volta le dimissioni, già respinte dagli europei, Francia in testa, ma con il sostegno dell’Italia. Il Vecchio Continente intende tener duro, anche per interpretare le volontà dei Paesi Emergenti per una precisa ragione politica: la tradizione vuole che il presidente del Fondo sia scelto dagli Usa, ma il direttore generale sia un europeo, scelta che riflette equilibri ormai superati, vista la crescita dell’Asia. 

Ma perché gli Usa vogliono la testa della Georgieva? Torniamo indietro al 2017, quando l’economista siede ai vertici della Banca Mondiale, si accinge ad aggiornare il rapporto “Doing Business”, cioè l’elenco dei Paesi a seconda del grado di sostegno all’attività economica, in tutti i suoi aspetti: dal fisco alla giustizia, dall’efficienza della burocrazia ai rapporti di lavoro e così via. Insomma, uno di quegli elenchi che sembrano destinati ai giornali ma che in realtà pesano moltissimo nelle scelte di investimento delle multinazionali e dei fondi che spesso li includono tra i criteri di scelta.

Basta questo per capire che pressioni e raccomandazioni si sprecano al momento di tirare le somme. Ma nel 2017/18 il gioco si fa particolarmente duro. Pechino fa sapere che ritiene che la sua posizione in classifica al numero 78 non tenga in debito conto le riforme degli ultimi anni.  E non è una richiesta accademica, perché cade in un momento delicato. Negli stessi giorni, infatti, Donald Trump, impegnato nella sua crociata anti-istituzioni, fa sapere di esser contrario all’aumento di capitale del Fmi, pur necessario per aiutare diversi Paesi ad uscire dalla recessione. Solo la Cina, con discrezione, fa sapere di esser pronta a metter mano al portafoglio. Purché la “banca sia comprensiva”.

Ahimè, le cose si complicano. Il presidente, il coreano Jim Yong  Kim, avverte i colleghi che Pechino rischia addirittura di perdere altre posizioni. Che fare? Alcuni suggeriscono di mettere assieme i dati della Cina con quelli dei territori semi autonomi di Hong Kong e Macau. Georgieva respinge una soluzione così rozza: Prende in mano in dossier e, con qualche correzione di metodo qua e là, riesce a spingere la Cina verso l’alto. Con un’imprudenza: in un biglietto ringrazia gli autori del rapporto “per aver fatto la loro parte in difesa del multilateralismo”. Lei, in cambio, riceve la spinta decisiva per salire ai vertici del Fmi. Mica male per una signora che si è laureata al Karl Marx Institut di Sofia sotto il regime più rigido del modo comunista. Una che prima di guidare la Banca Mondiale, ha aperto il suo primo conto corrente a 34 anni, una volta approdata alla London School of Economics per una Borsa di studio.   

Il caso esplode il 9 settembre scorso quando gli esperti di WilmerHale attivati da Washington presentano un’inchiesta monumentale (80 mila documenti) per dimostrare la malafede di Kristalina Georgieva che respinge con sdegno le accuse. E fa notare che la promozione di Pechino non è un caso isolato: che dire, ad esempio, dei passi in avanti dell’Arabia Saudita protetta dalla lobby di Jareed Kushner, genero di Trump, passata davanti alla Giordania grazie all’interesse certo non disinteressato di dirigenti poi usciti dalla Banca Mondiale?  

La Guerra Fredda tra Pechino e Washington, insomma, ha invaso l’area delle statistiche. Un grosso guaio perché, come sottolinea Olivier Blanchard che fu il capo economista del Fmi, “la fiducia nel lavoro del Fondo è decisiva per la sua credibilità”. Ma, dalla Lituania alla Giamaica, non sono pochi i casi di report del Fondo truccati per favorire un’intesa con i creditori.   

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