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Mario Deaglio: “Italia recupera, ma non è ancora vera ripresa”

RAPPORTO EINAUDI, PARLA MARIO DEAGLIO: “Al momento l’economia italiana vive un rimbalzo, ma non un rialzo vero e proprio, che indicherebbe un nuovo trend” – “Bene il Jobs Act ma pesa il Meridione: serve che la spesa pubblica sia convertita in investimenti e che cambi mentalità una parte della popolazione – “Ottimismo? Sì, sommesso”

Mario Deaglio: “Italia recupera, ma non è ancora vera ripresa”

“C’è una grande differenza tra rialzo e rimbalzo, spesso usati come sinonimi: il rimbalzo indica il ritorno alla situazione iniziale, dopo una discesa. Il rialzo segnala una nuova tendenza. Il problema dell’Italia è oggi di trasformare il rimbalzo in atto in un vero rialzo”. Così, con un’immagine al solito efficace, Mario Deaglio, economista “prestato” al giornalismo (fu lui il primo protagonista della trasformazione del Sole 24 Ore, ora è docente di Politica economica all’Università di Torino), fotografa l’attuale congiuntura del Bel Paese nel XX° rapporto sull’economia globale curato dal Centro Einaudi, che per titolo ha un interrogativo: “La ripresa, e se toccasse a noi?”.

Ci dia una risposta: ottimista o no?

“Guardano all’indietro, è lecito porsi l’interrogativo che molti italiani si pongono: ce la farà l’Italia? Negli ultimi otto anni gli investimenti sono scesi del 30 per cento, i consumi privati dell’8%. Ma quella della ripresa è una prospettiva realistica. Certo, negli ultimi vent’anni l’economia italiana ha fortemente ridotto la sua presenza in settori chiave. Ed è stata sull’orlo di una devastante crisi finanziaria. Ma il profilo del Paese non è cambiato solo in senso negativo”.

I segnali ci sono, sia nell’economia privata che nella finanza pubblica, si legge nel rapporto. Ma non è un trend troppo lento e comunque fragile?

“Consideriamo alcune semplici relazioni matematiche: un aumento della domanda interna del 2-2,5 per cento, a nostro avviso ragionevole e sostenibile per un lungo periodo, può portare ad un aumento del Pil dell’1,5-2 per cento. Dieci anni di crescita a questi ritmi, nell’ipotesi di un volume di debito pubblico invariato, portano a una discesa del rapporto debito/Pil dall’attuale 135 al 120 per cento. Il rapporto deficit/Pil potrebbe scendere sotto al 2 per cento. In queste condizioni si può far conto su un aumento dell’occupazione “buona”, cioè competitiva a livello internazionale e legata all’aumento della produttività, nell’ordine di 150-200 mila unità all’anno”.

Un cammino di lunga durata…

“Certo, un cammino “lungo”, senza la possibilità di “sfondare” ma con la necessità di perseverare. Proprio la perseveranza potrebbe portare ad un’accelerazione progressiva del tasso di crescita, non foss’altro che per il diffondersi di un clima di fiducia tra famiglie ed imprese. In questa prospettiva, il Jobs Act è stata mossa felice”.

Nel rapporto si fa riferimento però alle “ferite strutturali” dell’Italia. Prima fra tutte, l’eterna questione meridionale.

“In termini di posti di lavoro, durante la crisi, il Mezzogiorno ha perduto più del doppio (575 mila unità) di quanto successo nel Centro Nord (235 nila). Per di più la ripresa in corso non sta interessando il Sud. Le famiglie italiane cadute in povertà a causa della crisi, in tutto 290 mila, al Sud sono circa 200 mila. Sarebbe del tutto irrealistico pensare ad una simile crescita del divario mediante l’espansione del residuo fiscale trasferito al Sud”.

Che fare allora?

“La prima azione dovrebbe essere quella del recupero dell’efficienza dei fondi europei. Da considerare poi l’investimento in infrastrutture che richiede anche altre risorse. E’ inevitabile convertire parte della spesa pubblica corrente in spesa per investimenti. Si dovrebbe poi sperimentare un ventaglio di misure per attrarre gli investimenti nelle regioni meridionali e incentivare l’assorbimento nel capitale umano di giovane età”.

Basta così?

“Va ricordato che le misure economiche, gli incentivi fiscali e quant’altro possa escogitare la fantasia dei governanti non saranno sufficienti se non si incide profondamente nelle condizioni di base: deve cambiare l’atteggiamento di parte della popolazione riguardo alla crescita ed allo sviluppo, oggi spesso considerati come un qualcosa di estraneo o come un atto dovuto dello Stato”.

Insomma, i problemi non mancano ma un po’ d’ottimismo non guasta. E’ così?

“Diciamo che si può nutrire un sommesso ottimismo. E’ necessario che non succedano disastri geopolitici, a livello di economia globale o di assetto climatico. La risposta dipende poi largamente da noi: da un assieme di decisioni che vanno dalla politica economica alla politica familiare delle spese e dei risparmi, dalle scelte esistenziali dei giovani tra lo studio ed il non studio, tra il restare in Italia o emigrare. Nessuno, insomma, deve abbandonarsi a un facile trionfalismo. Ma tutti dovremmo nutrire un ragionevole, contenuto e sommesso ottimismo”.

Fin qui l’indagine sull’Italia che è solo un capitolo del solito, eccezionale, lavoro di sintesi sull’economia globale. Ma, forse, la vera novità sta proprio qui: l’età dell’economia globale volge al termine in un pianeta che si avvia ad essere più frammentato e, se possibile, ancor più complesso. Un quadro da cui risulta che, tutto sommato, non siamo gli ultimi della classe. 

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