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Magritte e l’apoteosi del negazionismo: “la realtà non è quella che è”

“Ceci n’esta pas une pipe” è l’opera simbolo del pittore belga e, nel suo candore, così intrigante da convincere un pensatore sofisticato come Foucault a dedicargli un saggio dall’omonimo titolo. Foucault arriva a vedervi una svolta decisiva nel percorso dell’arte perché il quadro scardina il sistema gerarchico, vigente nell’arte premagrittiana, tra realtà, rappresentazione e significato.

Magritte e l’apoteosi del negazionismo: “la realtà non è quella che è”

Questo dipinto di René Magritte è forse la negazione più famosa della storia dell’arte… forse dopo quella dell’apostolo Pietro dipinta da Caravaggio e conservata al Metropolitan di New York. Magritte dipinse due volte questo quadro a distanza di quasi 40 anni: la prima volta nel 1926 e la seconda nel 1960.

L’apoteosi del negazionismo

“La realtà non è quella che è”, affermò nel corso degli anni venti il pittore surrealista belga René Magritte che aveva attinto qualche idea decisiva dal metafisico De Chirico. Quest’affermazione ha aperto all’arte le porte dell’universo e oggi sembra percolare nelle sorgenti della conversazione pubblica. In modo contrario, però, rispetto alle intenzioni Magritte, il quale voleva dire che la rappresentazione non è la realtà, e invece succede che oggi si è eliminata proprio la negazione per correre verso la vetta del negazionismo.

Il negazionismo trionfa. La linea è negare la realtà oltre ogni ragionevole evidenza. Un fenomeno che oggi si estende ben oltre l’Olocausto o il cambiamento climatico per interessare aspetti molto più spiccioli della vita pubblica. Il giudice Brett Kavanaugh, fresco di nomina alla Corte suprema, nega di aver compiuto quello che l’evidenza sembra dimostrare; Trump nega di aver pagato Stormy Daniel quando il suo stesso avvocato dice di averlo fatto per lui; Putin si dice estraneo dell’avvelenamento di una ex agente del KGB quando si sa che l’autore materiale dell’atto è una persona vicina al suo entourage; Mark Zuckerberg ha negato che Facebook possa aver avuto un ruolo nell’intorbidamento delle elezioni presidenziali americane, quando è ormai chiaro, persino a lui e all’ineffabile Sheryl Sandberg, che è successo davvero; la Turchia nega il genocidio armeno e minaccia di pesanti ritorsioni chi osa solo nominarlo; i cinesi negano che esista Taiwan che scorgono dalle loro coste.

Il negazionismo è di moda. Ma i tanti negazionisti di oggi sono degli hobbisti della negazione a confronto dei maestri del negazionismo storico che il negazionismo non solo lo asserivano, ma proprio lo edificavano proprio mentre lo negavano.

Il negazionismo storico

A ricordarcelo è Siobhan Nash-Marshall, docente di filosofia teoretica al Manhattanville College di New York e autrice di un bellissimo e utilissimo libro appena tradotto in Italiano da Guerini editore, I peccati dei padri. La Nash-Marshall studia da tempo il negazionismo soprattutto in relazione ai genocidi, a partire da quello armeno.

In questo libro la studiosa americana mostra come l’assoluto disprezzo dei fatti, delle persone, delle prove e della storia — una caratteristica comune del negazionismo storico con la sua sprezzante indifferenza alla realtà fattuale — si diffonda sempre di più nei comportamenti pubblici contemporanei delle persone e delle nazioni. Ma com’è possibile che esista e possa trovare credito questo tipo di negazionismo in una opinione pubblica sofisticata e smaliziata come quella dei paesi sviluppati? Lo trova perché ha un fondamento teoretico.

La responsabilità è da ricercare in quella corrente del pensiero occidentale le cui radici, secondo la Nash-Marshall, affondanonell’impostazione del razionalismo cartesiano che iscriveva la realtà nel perimetro della ragione e nel principio che la confutazione di un’asserzione razionale potesse avvenire solo tramite un differente pronunciamento razionali e non tantoattraverso prove concrete tratte dalle realtà materiali. Il progetto demiurgico della filosofia moderna si fonda proprio sull’intelligenza ordinatrice di ogni realtà. È in questa quadro teorico che trova la sua ratio il negazionismo.

I due tipi di negazionismo storico

L’esempio più eclatante di negazionismo è quello che la Nash-Marshall chiama il negazionismo intra-genocidario che distingue da quello post-genocidario. Il negazionismo intra-genocidario è qualcosa che nega l’esistenza di ciò che sta accadendo simultaneamente alla sua realizzazione.

Sono stati proprio i nazisti ad avere raffinato l’arte della negazione intra-genocidaria e in particolare sono stati Adolf Eichmann e Reinhard Heydrich, i due architetti della soluzione finale. Due recenti film prodotti da Netflix, che ha l’indiscutibile meritoinsieme a molti altri di riportare la grande storia sugli schermi di casa, ricostruiscono in modo avvincente, e anche accurato, due momenti cruciali della vita di questi uomini: la cattura di Eichmann da parte del Mossad in Operation finale, di Chris Weitz con Ben Kingsley, e l’assassinio di Heydrich a Praga da parte di un commando dell’esercito cecoslovacco clandestino, in HHhH di Cédric Jimenez con Jason Clark. L’Operazione Anthropoid, che si svolge in HHhH, è stata oggetto anche di un altro film del 2016 dallo stesso titolo.

Heydrich e Eichmann furono i creatori del campo di Theresienstadt, il più fulgido esempio di negazionismo intra-genocidario. Siano lieti di proporvi alcuni passi da I peccati dei padri dove la Nash-Marshallm ricostruisce e commenta questa stupefacente testimonianza di negazionismo attivo.

Negazionismo e Theresienstadt

Il «ghetto» di Theresienstadt fu un elaborato esempio di negazionismo. Uno dei suoi scopi era di fornire ai nazisti elementi plausibili per i loro progetti genocidari. I nazisti lo pubblicizzarono in Germania come «luogo di villeggiatura» per gli ebrei. Lo chiamarono «ghetto Paradiso». Heydrich apparentemente voleva che ospitasse ebrei anziani, ebrei veterani decorati di guerra, ebrei celebri — che «avrebbero incoraggiato l’interesse interno ed estero — dalla Germania, dall’Austria e dalla Cecoslovacchia». La sua idea — parrebbe — era di avere un campo modello per mostrarlo a chi avrebbe potuto ostacolare la «Soluzione finale», persuadendolo che non c’era nulla da nascondere in relazione al modo in cui il regime nazista trattava gli ebrei.

Il «ghetto» di Theresienstadt aveva il suo «governo» ebraico: il Judenältestenrat des Ghetto Theresienstadt, il Consiglio degli anziani del ghetto di Theresienstadt. Aveva un ufficio postale e una banca, la Bank der Jüdischen Selbstverwaltung (la Banca dell’autoamministrazione ebraica), il cui direttore era il famoso sionista dottor Desider Friedmann. Aveva anche la propria moneta stampata, la Corona, che recava un ritratto di Mosè reggente le Tavole del Decalogo. Vi erano scuole per i bambini; strade con nomi apparentemente normali, regolarmente indicati su cartelli in legno ai crocicchi. Il ghetto «ospitava» musicisti, artisti, attori, studiosi. Era la «dimora» per i Prominenten — gli ebrei prominenti. Vi erano dei negozi e un caffè.

Heydrich era morto da tempo — e a Eichmann era stato affidato il controllo diretto di Theresienstadt –, quando re Cristiano X di Danimarca, com’è noto, costrinse involontariamente i nazisti a usare il campo per lo scopo originario: il negazionismo. Il re fu così contrariato dall’arresto e dalla deportazione degli ebrei danesi che non erano riusciti a fuggire in Svezia prima che i nazisti li arrestassero, che insistette affinché il suo governo e la Croce Rossa Internazionale ispezionassero i campi di concentramento nazisti.

L’operazione abbellimento

Ci volle un mese perché i nazisti accettassero la visita. All’inizio di ottobre del 1943, i nazisti arrestarono gli ebrei danesi. Il 4 novembre Eichmann informò re Cristiano che ai suoi rappresentanti sarebbe stato permesso di visitare Theresienstadt. Ai nazisti occorsero sette mesi per portare avanti la Verschönerungsaktion (l’Operazione Abbellimento), il cui scopo era di abbellire il campo di concentramento per l’ispezione dei danesi e della Croce Rossa Internazionale.

Piantarono alberi e aiuole e coprirono la «piazza della città» con nuova erba. Rinnovarono la banca, i negozi e il caffé. Fecero costruire nuove facciate per questi edifici. Vi installarono una nuova illuminazione. Li ridipinsero. Ordinarono nuove uniformi per i camerieri e per le cameriere. Costruirono un padiglione per la musica e campi da gioco per i bambini. Costruirono spogliatoi e docce per il campo sportivo. Concessero agli ebrei l’accesso ai parchi della città. Chiamarono medici dalla Germania per ispezionare l’ospedale. Vi inviarono nuovi medicinali, nuove lenzuola di lino e nuovi cuscini. Misero in piedi un ambulatorio dentistico. Ordinarono mobilio nuovo per le «case» che dovevano essere ispezionate. Costruirono nuovi letti. «Elargirono» ai «nuovi residenti» piccoli appezzamenti di terra dove potessero piantare «i loro giardini».

Nei mesi precedenti la visita, i nazisti permisero agli abitanti del ghetto di ricevere il cibo che veniva loro inviato dall’estero, cosicché i «cittadini» dell’«autogovernata» e autonoma «Città Paradiso» ebraica potessero avere un aspetto più sano. I nazisti addirittura ridussero e «abbellirono» la popolazione di Theresienstadt: circa 7.500 ebrei dall’«aspetto meno gradevole» furono trasportati ad Auschwitz subito prima dell’arrivo delle delegazioni di Danimarca e della Croce Rossa, in modo tale che il campo, peraltro, non sembrasse troppo affollato.

Maurice Rossel, il rappresentante svizzero della Croce Rossa Internazionale, che accompagnava gli ispettori danesi di Theresienstadt, fu completamente fuorviato dal Verschönerung nazista. «Si trovavano nel ghetto cose quasi impossibili da trovare a Praga», affermò, e «le donne più eleganti indossavano calze di seta, cappelli, sciarpe, e avevano borse moderne». Il loro sistema sanitario era di una qualità, notò, che «raramente si sarebbe potuta constatare». La conclusione della sua relazione elogiativa, di quindici pagine, sul trattamento degli ebrei nel ghetto di Theresienstadt riporta: «straordinario fu il nostro stupore nel trovare nel ghetto una città in cui si conduceva un’esistenza quasi normale». Egli insistette nel dire che lì era tutto in regola. Sembra che non gli sia mai passato per la mente che era tutto troppo bello per essere vero.

Il successo della Verschönerungsaktion (l’Operazione Abbellimento) fu tale che i nazisti decisero di fare un film perché il loro inganno potesse raggiungere un pubblico più vasto. Volevano che la Croce Rossa, il popolo tedesco e i Paesi neutrali «vedessero» che gli ebrei erano felici e ben trattati. Il film era intitolato Der Führer schenkt den Juden eine Stadt (Il Führer dona agli ebrei una città). Le condizioni di lavoro perfette, gli uomini sani alla fucina, la partita di calcio con i suoi spettatori esultanti con la stella di Davide bene in vista, le docce in cui si possono vedere uomini nudi sani, le affollate lezioni frequentate da gente interessata, ben vestita e ben nutrita recante la stella di David, i concerti, i bambini che mangiavano pane e burro, gli orti che si possono notare nel film — per tacere dei bambini sorridenti nelle foto del campo di concentramento scattate dalla Croce Rossa — tutto mostra quanto seducente possa essere il negazionismo. Da nessuna parte si vede traccia di soldati e mitragliatrici, morti per fame, camere a gas e forni crematori, che oggi tutti associamo alla Shoah.

La Verschönerungsaktion cominciò nel dicembre 1943. La visita della Croce Rossa ebbe luogo il 23 giugno 1944. Auschwitz fu liberata il 27 gennaio 1945.

Il negazionismo e la perpetrazione del genocidio

Un secondo importante presupposto dimora nelle spiegazioni inerenti al modo in cui «il negazionismo continua il processo» genocidario, che presumono che il genocidio, la cui realtà storica viene negata dai negazionisti, sia un evento distinto dall’atto della negazione. In altre parole, queste spiegazioni del negazionismo offerte dai vari studiosi presumono che la negazione del genocidio non sia parte del genocidio che viene negato.

Al pari del primo presupposto, questa convinzione è valida nel caso del negazionismo successivo alla Shoah. Robert Faurisson può ben agire come un «Eichmann di carta», come afferma Vidal-Naquet, per le sue pubblicazioni e lezioni negazioniste. Le sue opere, tuttavia, non fanno parte del vero progetto e della reale attuazione del genocidio nazista degli ebrei d’Europa. Non contribuiscono direttamente alla Shoah in sé. Un «Eichmann di carta» ex post facto non è Eichmann o un suo collega.

Anche questo presupposto non è sempre valido, proprio come la negazione del genocidio non deve necessariamente aver luogo solo dopo la conclusione effettiva dello stesso. Nello stesso modo, il negazionismo non è necessariamente distinto dal genocidio la cui realtà si prefigge di negare, né deve non condividerne le cause.

Il «ghetto» di Theresienstadt fu parte della Shoah in ogni modalità significativa con cui qualcosa può essere parte appropriata di qualcos’altro. La sua causa effettiva fu il regime nazista. Fu materialmente e formalmente parte della Shoah. Fu un luogo dove gli ebrei furono rinchiusi per il solo fatto di essere ebrei. Un luogo in cui gli ebrei furono uccisi per il solo fatto di essere ebrei. Un luogo dove gli ebrei morirono a decine di migliaia. Un campo di transito per gli ebrei che stavano per essere mandati ai campi di sterminio. Il suo scopo era la perpetrazione della Shoah.

Theresienstadt, e questa è la cosa più importante ai fini della nostra riflessione, fu magistralmente ingannevole. In quanto campo modello, servì a un importante scopo per i nazisti: permise loro di negare in modo plausibile che stessero massacrando gli ebrei, sì da poter continuare a farlo. L’unica ragione dell’Operazione Abbellimento fu il continuativo perpetrarsi della Shoah. I nazisti volevano convincere il re di Danimarca, la Croce Rossa Internazionale e il popolo tedesco che i loro campi di concentramento non erano campi di sterminio, in modo da poter continuare indisturbati a sterminare gli ebrei d’Europa. Il successo del loro negazionismo ebbe risultati immediati. I danesi — Frans Hvass del Ministero degli Esteri danese e il dottor E. Juel-Henningsen, un responsabile del Ministero danese della Sanità, che con Rossel ispezionò il «ghetto» di Theresienstadt — furono così colpiti dall’Operazione Abbellimento che stilarono un rapporto intitolato «Il Paradiso per gli ebrei sulla Terra». La relazione riuscì a convincere la Croce Rossa danese a non insistere per l’autorizzazione a ispezionare il campo per famiglie di Birkenau (BIIb). Himmler rispose al silenzio danese su Birkenau ordinando di mandare alle camere a gas le famiglie di quel campo. Cosa che avvenne tra il 10 e il 12 luglio 1944, solo due settimane e mezza dopo la famosa ispezione di Theresienstadt da parte della Croce Rossa.

Quasi tutte le persone che furono riprese nel film Der Führer schenkt den Juden eine Stadt furono mandate ad Auschwitz appena il film fu finito.

Negazionismo postgenocidario e negazionismo intragenocidario

Quello che Theresienstadt chiarisce è che ci sono almeno due tipi distinti di negazionismo, che potremmo chiamare rispettivamente negazionismo post-genocidario e negazionismo intra-genocidario. Il primo tipo di negazionismo è esemplificato da David Irving. Costui cominciò la sua negazione pubblica della Shoah negli anni Settanta, molto tempo dopo la caduta del Terzo Reich. Il secondo tipo di negazionismo è esemplificato da Reinhard Heydrich e Adolf Eichmann, che cominciarono a negare il perpetrarsi della Shoah proprio mentre la stavano perpetrando.

La differenza principale tra negazionismo post-genocidario e negazionismo intra-genocidario dimora nella relazione tra la negazione e la perpetrazione del genocidio la cui verità questa nega. Il negazionismo di Heydrich e di Eichmann fu parte fondamentale del genocidio che loro contribuirono a perpetrare. Il loro fu un caso di negazionismo intra-genocidario. Il negazionismo di David Irving, invece, anche se certamente costituisce un’aggressione alla dignità umana, alla razionalità, alle fondamenta della cultura e agli ebrei, non è una parte fondamentale del genocidio che egli nega essere accaduto. Il suo è un caso di negazionismo post-genocidario.

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