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Lusso: vale 250 miliardi. I nuovi trend tra digitale, turismo e millennials

Nel corso dell’evento dedicato al futuro della moda italiana, organizzato alla Borsa di Milano da Pambianco e Deutsche Bank, sono emersi alcuni spunti sul mercato del lusso, che vale 250 miliardi nel mondo: il travel retail che resiste all’e-commerce, la rivoluzione digitale con i social in prima linea, i cinesi padroni della domanda ma col ritorno degli europei (anche giovani) – E per l’Italia un’idea: lanciare l’Eataly del lusso.

Lusso: vale 250 miliardi. I nuovi trend tra digitale, turismo e millennials

Il lusso, un’industria che vale a livello globale 250 miliardi e che continua a crescere da vent’anni, sostenuto soprattutto dalla domanda asiatica e che quasi non ha risentito della recessione. Ma come sta evolvendo il mercato e come si posiziona l’Italia? Se lo è chiesto Deutsche Bank, che attraverso gli studi del Global Luxury Research ha presentato alla Borsa di Milano, insieme a Pambianco, una ricerca sul futuro della moda italiana.

I due driver principali del lusso a livello globale sono la digitalizzazione e il turismo, un altro settore che si lega a doppio filo e che offre all’Italia, che con i suoi 88 miliardi di fatturato è il terzo mercato per destinazione, una grande opportunità. “L’idea deve essere quella di una Eataly del lusso”, ha sostenuto Francesca Di Pasquantonio, Head of Global Luxury Research di Deutsche Bank,nel sollecitare i brand italiani a fare maggiormente sistema per essere ancora più presenti all’estero, sulla falsariga di quanto fatto da Eataly nel settore del food e confermato dal presidente esecutivo Andrea Guerra: “Con Eataly ben 8.000 prodotti alimentari italiani hanno varcato per la prima volta il confine nazionale”.

Rivoluzione digitale

La prima grande novità è il digitale, che sta cambiando il mondo della moda in quanto consente un contatto diretto tra brand e consumatore e permette sempre di più ai Millennials (21-37 anni), una generazione storicamente meno propensa a spendere rispetto ai baby boomers, di tornare protagonisti anche su questo mercato. “Il ritorno del consumatore giovane e europeo – spiega Di Pasquantonio – è dovuto principalmente al pricing e alle motivazioni commerciali. I gruppi del lusso, dopo aver cavalcato il boom asiatico, stanno calmierando i prezzi”. E poi c’è internet e i social che lanciano mode e creano nuove motivazioni di acquisto, anche tra i giovani e anche sui mercati maturi.

Nel mondo ci sono 3,4 miliardi di smartphone connessi e il 90% dei fashion brand, secondo quanto emerge da una ricerca di Pambianco, ha un profilo sui principali social network, in particolare Instagram che anche secondo lo stilista Giuseppe Zanotti, presente all’evento in Borsa, “è la nuova frontiera del mercato del lusso: è da lì che prendiamo i maggiori spunti”. Pambianco ha anche dimostrato che ormai, guardando solo alle aziende italiane (la ricerca è condotta su un gruppo di imprese che rappresentano un fatturato totale di 8 miliardi), l’investimento in comunicazione arriva al 5% del fatturato e le campagne social sono passate dallo 0% del 2012 al 12% del 2016, con un totale di 23% dedicato a social o a pubblicità online.

La risorsa del turismo

Per i marchi di alta gamma, secondo una ricerca di Premier Tax Free, le vendite dallo shopping tax free, quindi quelle legate al turismo e agli aeroporti, si confermano la principale fonte di ricavi. E in Europa i dati dicono che i turisti extra-Ue nei primi dieci mesi del 2017, dopo il rallentamento del 2016, sono aumentati dell’11%, con un incremento dello scontrino medio del 3%. L’Italia resta tra le tre destinazioni preferite insieme a Francia e Uk, mentre i turisti arrivano per lo più da Cina, India, Usa, ma anche Russia e Brasile.

In particolare in Italia la maggior parte dello shopping tax free, con il 28% (Usa e Russia dietro con l’11%), arriva da visitatori cinesi. Dunque anche se tornano a spendere gli europei e i Millennials rappresentano un quarto della domanda (ma non della spesa), secondo l’analisi di Deutsche Bank “il consumatore cinese rimane il fulcro della crescita: rappresenta oggi più di un terzo della domanda complessiva e arriverà anche al 40%”. A conferma dell’importanza del turismo, risulta che il globetrotter sia il motore della domanda, soprattutto tra i clienti cinesi: “Il consumatore cinese spende più del 60% fuori dal suo Paese e il travel retail arriva a rappresentare ormai il 10% del fatturato societario, scalfito solo marginalmente dall’e-commerce”. Insomma, si preferisce ancora viaggiare e spendere viaggiando.

Mercato italiano

L’industria italiana conta 67mila aziende (pari al 17% del totale manifatturiero), impiega quasi 600mila persone (il 16% della forza lavoro del manifatturiero) e produce un fatturato complessivo di 88 miliardi di euro, di cui il 62% destinato all’export, contribuendo a metà del surplus commerciale italiano. Finora nel 2017 l’export, secondo i dati Eurostat, è cresciuto del 4%.

Come approfittare di questa crescita, e dell’appeal turistico dell’Italia? “Innanzitutto – sostiene Di Pasquantonio di Deutsche Bank – usando più aggressivamente l’online. Il canale digitale rappresenta ormai il 9% della domanda e consente di raccogliere nuove informazioni grazie alle tecnologie e alla profilazione del cliente. Poi ci vuole il coraggio di rubare talenti da altri settori: Apple ad esempio ha assunto il Ceo di Burberry come responsabile del retail, e viceversa LVMH ha un manager mutuato da Apple. E poi bisogna fare sistema: i conglomerati hanno dimostrato di generare performance economiche e finanziarie migliori”.

Serve un brand nazionale, un made in Italy che raggruppi il grande potenziale: l’Italia vanta il maggior numero di marchi nella top 100 del settore lusso stilata da Deloitte e il brand “made in Italy” è il terzo più cercato al mondo secondo Google. La grande provocazione è quella di un modello Eataly anche per il lusso: “In Italia ci sono risorse, idee e talenti che non sono ancora valorizzati a livello di sistema. Ci vorrebbe una Lux-taly sul modello di Eataly per il food, un conglomerato che valorizzi su scala globale i marchi italiani che non possono farlo individualmente, che poi sono la maggior parte”, conclude l’analista di Deutsche Bank.

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