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Luglio 2011, fuga dall’Italia

Perché l’Italia è l’anello debole tra i Paesi europei. Il Governo ha fatto un decreto d’emergenza che non ha convinto i mercati. Tutte le categorie produttive invocano un cambio di passo. Giuliano Amato vuole la patrimoniale ma già nel ’92 la misura si rivelò controproducente. Per Berlusconi non dovrebbe essere tempo di vacanze.

Luglio 2011, fuga dall’Italia

I titoli di Stato italiani sono nella bufera. Nelle ultime tre settimane lo spread con il bund è raddoppiato ed i rendimenti delle nuove emissioni sono saliti di un punto e mezzo. Vendono gli speculatori certamente, ma soprattutto stanno uscendo dai titoli italiani le grandi banche, Deutsche Bank in testa, e molti piccoli e medi risparmiatori.

La bufera si è rapidamente propagata alla Borsa di Milano dove dominano banche ed assicurazioni che hanno in portafoglio grandi quantità di Bot e che vedono salire paurosamente i costi della loro raccolta sul mercato. Rischiamo di entrare in una spirale negativa con una rapida estensione della crisi finanziaria all’economia reale con conseguente riduzione sia del patrimonio che dei redditi dei cittadini. E, fatto più grave, tutto sembra avvenire nella più completa inconsapevolezza del Governo, e di parte della classe dirigente, anche se proprio ieri tutte le categorie economiche sia dell’industria che della finanza, insieme ai sindacati, hanno finalmente reclamato un cambio di passo, una discontinuità capace di riportare la fiducia presso gli investitori interni ed internazionali.

Difficile dire se questo richiamo sveglierà il Governo dal suo luogo sonno. Fino a ieri il Ministro dell’economia sosteneva che in realtà ci troviamo nel pieno di uno scontro tra le due rive dell’Atlantico, cioè tra dollaro ed euro, e che quindi l’Italia da sola ben poco avrebbe potuto fare. Ed è sicuramente vero che gli Stati Uniti rischiano il default per il braccio di ferro tra Presidente e Congresso sulle misure di contenimento del deficit federale che è ormai al 10% del Pil, che l’Europa ha manifestato incredibili ritardi nell’affrontare la crisi della Grecia e che anche le misure adottate nel vertice di giovedì scorso appaiono non ancora operative e comunque rimesse in discussione dalla Germania il cui ministro delle Finanze vuole addirittura una parziale cessione della sovranità da parte dei paesi che dovessero richiedere misure di sostegno.

E’ vero quindi, che siamo dentro una bufera internazionale, ma questo non può essere la scusa per non far nulla, perché comunque ci sono delle precise nostre responsabilità se l’Italia è diventata l’anello debole dei paesi europei e quindi in terreno dello scontro(ammesso che sia proprio nei termini descritti da Tremonti) tra dollaro ed euro. Sicuramente possiamo e dobbiamo fare qualche cosa per metterci al riparo dai colpi della bufera internazionale. Intanto bisogna capire perché la manovra di emergenza varata due settimane fa ed approvata dal Parlamento in tempi record, non ha convinto i mercati e quindi non ha frenato la fuga degli investitori dai titoli italiani. La ragione sta nel fatto che si trattava di una manovra tappabuchi, con molte tasse e pochi tagli, e soprattutto senza nessuna misura capace di riavviare il processo di sviluppo del nostro Pil senza il quale non saremo mai in grado di ripagare la montagna del nostro debito.

Giuliano Amato in una intervista di ieri sul Corriere della Sera ricorda la crisi del ’92 da cui si uscì con le drastiche misure adottate dal Governo che presiedeva. Ma dimentica di citare alcuni aspetti importanti che rendono simile la situazione di allora a quella di oggi. In primo luogo Amato tentò in estate una manovra di emergenza che comprendeva il prelievo forzoso sulle giacenze dei conti correnti bancari (una specie di patrimoniale come si propone di fare oggi) che fu uno degli elementi che aggravò la sfiducia dei mercati verso la nostra moneta e portò ad una perdita di riserve da parte della Banca d’Italia di ben 50 mila miliardi di lire in due mesi. In secondo luogo Amato allora disponeva di un’arma che oggi non c’è più, e cioè la svalutazione della lira, che permise il recupero di competitività delle nostre produzioni. In terzo luogo l’accordo del ’93 tra le parti sociali seppellì definitivamente la scala mobile e pose un freno alle rivendicazioni sindacali evitando così di scaricare sui costi delle imprese la maggiore inflazione importata a causa della svalutazione.

Se si studiano bene le lezioni della storia appaiono più chiare le ragioni che oggi ci hanno portato in prima linea nel subire l’impatto delle turbolenze internazionali e della crisi di fiducia che si è abbattuta sul nostro Paese. Noi sprechiamo troppe risorse e la manovra di Tremonti non incide a sufficienza sui tagli. Non abbiamo fatto nulla per stimolare incrementi di produttività. Amato dice giustamente che bisogna lavorare tutti di più per uscire dalla crisi attuale. Forse si potrebbe dire di più e meglio cioè con organizzazioni innovative o favorendo lo spostamento di lavoratori da posti a scarsa produttività a posti con più alta tecnologia e quindi produttività. Ma non è stato nemmeno possibile per ripicche personali o per resistenze ideologhe, inserire nel decreto una semplice norma che estendeva “erga omnes” la validità dei contratti aziendali approvati dalla maggioranza dei lavoratori.

Ed oggi, come tutti sanno, i guadagni di produttività si fanno fabbrica per fabbrica e non con accordi a livello nazionale. Confindustra e sindacati che pure invocano una discontinuità nella politica economica, per essere più credibili, dovrebbero dire cosa sono disposti a mettere da parte loro sul piatto per cambiare passo. Ad esempio Confindustria rinuncerebbe a parte degli incentivi pubblici? La Cgil sarebbe disponibile a discutere le innovazioni capaci di aumentare la produttività del lavoro? I commercianti sarebbero disposti a liberalizzare gli orari di apertura dei negozi e a non alzare barricate rispetto ad un a maggiore diffusione della grande distribuzione? Ed il Governo cosa aspetta ad affrontare il capitolo dei cosiddetti costi della politica che comprende in realtà privatizzazioni e liberalizzazioni e soprattutto la semplificazione e la trasparenza del sistema politico-burocratico che costituisce una pesante “manomorta ” che mortifica lo spirito di iniziativa degli italiani?

Siamo in piena emergenza. Spaventa veramente un presidente del Consiglio che si occupa di cose minori, che non ha detto una parola durante la discussione sul decreto Tremonti, e che ora si appresta ad andare in vacanza mentre la casa rischia di crollare da un momento all’altro. Ci vorrebbe ben altro.

Bisognerebbe chiamare tutti i firmatari del manifesto per la discontinuità e capire cosa loro stessi sono disposti a fare. Proporre da parte governativa un piano di tagli e liberalizzazioni capace di aumentare la competitività del sistema Italia. Convocare il Parlamento di sabato e domenica e proporre un programma, non di lacrime e sangue, ma di cambiamento per favorire lo sviluppo. Chi potrebbe in questo contesto rifiutare qualche sacrificio? Il timore è che si cerchi ancora una volta di tirare avanti con qualche altra toppa. Ma bisogna ricordare quel vecchio detto popolare secondo il quale spesso la “toppa è peggio del buco”.

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