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L’onda lunga della crisi greca indebolisce l’Italia sui mercati e allarga lo spread tra Btp e Bund

Sull’ultimo numero di Focus (settimanale di analisi economica di Bnl – Bnp Paribas), il responsabile del servizio studi spiega le vere radici delle tensioni sul differenziale tra Btp e Bund – In assenza delle scorciatoie delle svalutazioni competitive della lira, l’Italia deve cambiare passo e accelerare crescita e modernizzazione.

L’onda lunga della crisi greca indebolisce l’Italia sui mercati e allarga lo spread tra Btp e Bund

È a tutti noto come, nel volgere di pochi giorni, forti tensioni di mercato abbiano innalzato del cinquanta per cento la misura dello spread sul Bund tedesco dei titoli benchmark del debito pubblico italiano. È accaduto intorno alla prima decade di luglio. La dilatazione del differenziale dei BTP è avvenuta sull’onda del protrarsi della crisi del debito greco e in assenza di dati economici di sostanziale novità nel quadro italiano.

La marcia meno veloce della ripresa italiana è visibile da tempo. Al primo trimestre dell’anno in corso il PIL del nostro paese aveva recuperato solo un quarto della caduta della recessione. In Germania, alla stessa data, il ripiano dei sette punti percentuali di prodotto reale persi tra il 2008 e il 2009 risultava invece già completato. Congiunturalmente, tra gennaio e marzo il ritmo di espansione del PIL italiano si è fermato al +0,1% contro il +0,8% della media dell’area euro e il +1,5% della Germania.

Alcune autorevoli anticipazioni dei risultati della crescita nel secondo trimestre indicano la possibilità di un riallineamento della progressione di ripresa dell’Italia al passo medio dell’eurozona. È una prospettiva incoraggiante, quantomeno per contrastare scenari di ulteriore dilatazione del divario di sviluppo tra noi e i partner comunitari. Se i dati di debole crescita dell’economia italiana erano noti al mercato da tempo, la repentina dilatazione degli spread dei BTP rappresenta verosimilmente la reazione a un elemento diverso dello scenario. Parliamo del cambiamento che nei mesi scorsi è intervenuto nella percezione delle regole del gioco sulla sostenibilità delle pubbliche finanze.

In teoria, in Europa già il trattato siglato a Maastricht nella prima metà degli anni Novanta chiedeva ai sottoscrittori l’esercizio di una doppia disciplina. Contenere il deficit e, nello stesso tempo, avviare un percorso di riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto lordo verso la soglia prescritta dal Trattato. Nella pratica, gli anni successivi al varo della moneta unica hanno visto la disciplina del deficit affermarsi con relativa continuità. Quello che è rimasto più in ombra nella concreta applicazione è il discorso della riduzione del rapporto tra debito pubblico e prodotto.

Oggi, a valle della crisi partita con il problema americano dei mutui subprime e ora focalizzata sul tema dei rischi sovrani europei, la sensibilità nei confronti di un riequilibrio dei debiti, pubblici e privati, in rapporto alla crescita è comprensibilmente molto aumentata. E’ questa la novità con cui occorre fare i conti. Nel 1995 il “ratio” debito pubblico-PIL era pari in Italia al 121%. Tra il 1995 e il 2004 diminuì al 104%. Negli anni della crisi e della recessione, tra il 2008 e il 2010, è passato dal 106% al 119%.

Quest’anno, secondo autorevoli proiezioni, il rapporto tra debito pubblico e PIL si attesterà al 120%, tornando sostanzialmente intorno ai valori di una quindicina di anni orsono. Concentrando lo sguardo sull’esperienza degli ultimi anni, ciò che va innegabilmente riconosciuta all’Italia è una capacità migliore di altri di controllare l’accrescimento del proprio debito pubblico. A fronte dei tredici punti di incremento conseguiti dal nostro paese, tra il 2008 e il 2010 il rapporto tra debito pubblico e PIL è salito di quattordici punti in Francia, di quindici punti nella media dell’area dell’euro, di diciassette punti in Germania, di diciotto punti nel totale della UE, di venti punti in Spagna e di trentadue punti in Grecia.

Se, tra il 2008 e il 2010, la variazione – la caduta e la ripresa – del PIL dell’Italia fosse stata la stessa della media dell’area euro, il rapporto tra debito pubblico e PIL si sarebbe attestato nel 2010 a quota 118 invece che 119. Se l’Italia avesse avuto nel 2009-10 la stessa ripresa che ha sperimentato la germania, il rapporto tra debito pubblico e PIL nel nostro paese si sarebbe fermato lo scorso anno poco sopra il 116%. Ciò a parità di altre condizioni. Com’è stato autorevolmente rilevato “la solvibilità degli stati sovrani non è più un fatto acquisito ma va guadagnata sul campo con una crescita alta e sostenibile, possibile solo con i conti in ordine.”1 Nel corso degli anni passati l’Italia ha mostrato una discreta capacità di mantenere i conti in ordine. Nel nuovo paradigma di regole di policy e di convenzioni di mercato che si sta sempre più visibilmente consolidando, al nostro paese è chiesto un cambio di passo sul fronte della crescita. E’ una sfida assai impegnativa, oggi certamente più difficile che in passato quando importanti manovre di risanamento dei conti pubblici si trovarono associate a consistenti svalutazioni del cambio.

Accadde nel 1992-93, quando la fuoriuscita della lira dallo SME si combinò all’impostazione di una manovra correttiva del bilancio pubblico di ben 93mila miliardi di lire. Avvenne poi ancora nel 1997, allorché una riduzione di quattro punti in un anno del rapporto tra deficit pubblico e PIL ebbe luogo alla presenza di una svalutazione della lira verso il dollaro dell’ordine del 10 per cento. Negli ultimi anni la variabile “cambio” ha contribuito a rendere ancora più espansivo il mix di policy usato da altri paesi contro gli effetti della crisi. Ciò è accaduto, ad esempio, negli USA e nel Regno Unito. Nel 2007 occorrevano 1,5 euro per acquistare una sterlina.

Oggi ne bastano 1,1. Solo un anno fa un euro valeva 1,2 dollari. Oggi ne vale 1,4. Paesi con prospettive di crescita non certo peggiori di quelle dell’area euro hanno valute che si rivelano deboli nei confronti della moneta unica europea. Stretto nel suo ruolo di divisa “anti-dollaro”, l’euro continuerà a rimanere relativamente forte. Questo accadrà almeno sino a quando il grande gioco di riallocazione degli “holdings” dei nuovi investitori asiatici – in primis, dei cinesi – troverà un punto di equilibrio. Alla fine di giugno lo stock delle riserve valutarie di Pechino è arrivato al massimo storico di 3.200 miliardi di dollari – qualcosa che comincia ad avvicinarsi all’ordine di grandezza del PIL della Germania – quasi raddoppiando il valore di appena tre anni fa.

Crescono i fondi a disposizione dei cinesi, ma si attenua il loro interesse nei confronti di ulteriori investimenti in attività denominate in dollari. Dopo essere cresciuto per molti anni, nella primavera del 2011 lo stock di titoli pubblici americani in mano a cinesi si è fermato (dai 414 miliardi di dollari di aprile 2007 ai 1.175 miliardi di ottobre 2010 ai 1.152 miliardi di aprile 2011). Come sempre accade in economia, ciò che può sembrare per certi versi un vincolo costituirà per altri aspetti un’opportunità. In attesa di un riequilibrio globale dei rapporti di cambio tra le due maggiori potenze mondiali – USA e Cina – la forza relativa dell’euro servirà a contenere le spinte inflazionistiche derivanti dalle materie prime. Rispetto ad altre esperienze storiche del passato, in Italia la combinazione tra rilancio della crescita e riordino dei conti pubblici dovrà questa volta essere di una qualità superiore.

Quello che un tempo veniva dal bonus congiunturale delle svalutazioni dovrà essere sostituito con il dividendo strutturale d’interventi di modernizzazione che rendano il paese finalmente capace di trarre vantaggio dal carattere policentrico assunto dall’internazionalizzazione e dalla nuova geografia della crescita economica mondiale. Il mondo cresce grazie alla manifattura e al traino crescente della domanda di beni e servizi di centinaia di milioni di appartenenti a nuove borghesie consumatrici. L’Italia è un paese solido e laborioso, che ha tutti i numeri per produrre e vendere beni e servizi che piacciano al mondo che cambia e ai suoi nuovi consumatori. Li hanno i ventitré milioni di famiglie italiane i cui tassi d’indebitamento rispetto al reddito disponibile sono di un terzo più bassi rispetto a quelli medi dell’eurozona (66% contro 99%, nel 2010).

Li hanno le imprese italiane, che, nonostante tutte le difficoltà, vedono nel 2010 aumentare del 6% il numero delle nostre presenze sull’export. Negli anni Novanta dello scorso secolo il vincolo esterno della moneta unica obbligò l’Italia a un’azione di risanamento e di allargamento degli orizzonti, economici e sociali. La stessa sfida di risanamento e di rilancio va colta ora, uscendo dai circoli viziosi e accrescendo coesione e competizione.

Fonte: Focus Bnl

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