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L’Italia nel capitalismo che cambia: ecco a che punto è

Esce in questi giorni un nuovo libro di Franco Bernabè, “A conti fatti. Quarant’anni di capitalismo italiano”, edito da Feltrinelli, in cui il manager ripercorre, con particolari inediti, la sua straordinaria avventura ai vertici dell’Eni e di Telecom Italia per concludere con riflessioni che investono l’intero capitalismo e di cui pubblichiamo le pagine conclusive.

L’Italia nel capitalismo che cambia: ecco a che punto è

Il capitalismo è notevolmente cambiato nel corso degli ultimi decenni e anche l’Italia ha subìto una straordinaria trasformazione. Un paese sconfitto in guerra e con un analfabetismo diffuso è entrato nel novero degli Stati più industrializzati del mondo. Per molto tempo le scelte fondamentali della classe politica ispirate all’economia di mercato hanno consentito di distribuire benefici ad ampie fasce della popolazione: dall’aggancio all’Europa all’apertura dei mercati, dalla libertà dei movimenti di capitale alle liberalizzazioni, che hanno aumentato la concorrenza e ampliato la gamma delle opportunità. Nel frattempo il paese è molto cambiato anche in ragione di queste scelte. Le grandi famiglie industriali che avevano beneficiato di un’economia protetta dalla concorrenza estera sono quasi scomparse, trasformando in profondità il capitalismo italiano. La grande industria è stata delocalizzata, la classe operaia si è ridotta in termini di dimensioni e di peso politico, il sistema finanziario si è indebolito, lo Stato ha perso presenza nell’economia e soprattutto capacità di indirizzo.

L’Italia ha sofferto più di altri paesi dei cambiamenti sistemici perché la trasformazione del suo apparato economico è sempre stata ambigua e incompleta. Negli anni trenta, grazie a personalità come Beneduce, il sistema economico era stato organizzato sull’equilibrio tra uno Stato forte in economia e la presenza altrettanto forte delle famiglie imprenditoriali storiche.

Dopo la Liberazione, contrariamente a quanto avveniva in Germania e in Giappone, all’Italia fu consentito di salvaguardare la sua presenza pubblica attraverso l’Iri e di avviarsi con il resto dell’Occidente su un percorso di apertura del sistema economico, mantenendo l’equilibrio tra pubblico e privato. Queste scelte garantirono una crescita elevata e un rafforzamento della classe operaia, ma anche tensioni sociali più forti che in altri paesi e tassi di inflazione più elevati.

Il momento di svolta fu tra gli anni settanta e ottanta. Mentre gli altri paesi imboccavano con decisione la strada delle liberalizzazioni, l’Italia faticava a prendere decisioni, lasciando crescere l’inflazione e cercando di contenere le tensioni sociali attraverso l’espansione del welfare. Il risultato fu l’aumento dei tassi di interesse reali, che diedero la prima grande spinta all’incremento del debito pubblico, tema che condiziona tuttora qualsiasi decisione di politica economica. Quando finalmente l’Italia intraprese la strada delle privatizzazioni lo fece con grande difficoltà e sofferenza, il disegno del sistema economico che si sarebbe dovuto configurare rimase incompiuto. Le liberalizzazioni furono parziali e non fu semplificato il sistema istituzionale e normativo, condizione fondamentale per il corretto funzionamento di un’economia di mercato.

Insomma, l’Italia ha subìto le trasformazioni che stavano avvenendo nel resto del mondo senza governarle. Non avendo definito un progetto che sostituisse il vecchio ordine creato da Beneduce ha delegato alle istituzioni europee e internazionali il compito di disegnare l’architettura del nuovo sistema e delle istituzioni che ne regolano il funzionamento, adottando le soluzioni che sembravano più accettate a livello internazionale senza preoccuparsi di modificare il tessuto di norme e di comportamenti in cui si inserivano. Per una sorta di complesso di inferiorità ha anzi reso più severe e stringenti le norme imposteci dall’esterno, ingessando ulteriormente un sistema che già si muoveva a fatica.

L’Italia subisce la finanziarizzazione dell’economia mondiale senza averne alcun beneficio. Una parte importante del risparmio che si genera nel nostro paese alimenta la crescita di altri sistemi economici. Per far ripartire l’economia occorre innanzitutto che la massa del risparmio accumulato dalle famiglie italiane sia canalizzata verso il sistema produttivo. In un’economia aperta questo non è un compito facile perché il risparmio va alla ricerca degli impieghi più remunerativi, che spesso si trovano all’estero. Per questo servono grandi e sofisticati intermediari finanziari: banche, compagnie di assicurazione, fondi pensione, fondi di private equity, fondi di venture capital. Servono istituzioni radicate in Italia, che conoscano il nostro paese e le sue specificità e abbiano strategie compatibili con il particolare tessuto produttivo italiano fatto di piccole e medie imprese. Occorre che queste istituzioni siano incentivate, attraverso adeguati strumenti fiscali, ad assumersi il rischio di investire in imprese nascenti.

Occorre che sia incentivato chi si assume il rischio di impresa e che non sia perseguito in caso di fallimento. Gli italiani hanno sempre avuto una naturale vocazione a fare impresa, ma nel tempo si è fatto di tutto per disincentivarli.

La stratificazione di leggi, norme e regolamenti, spesso incoerenti, ha reso qualsiasi iniziativa imprenditoriale molto complessa e costosa per la necessità di dover ricorrere a una schiera di specialisti e per i rischi che derivano dall’inosservanza di certe regole. Occorre semplificare la vita delle imprese e degli imprenditori, riportando l’attività normativa ai principi essenziali.

Ogni governo che si insedia promette nuove riforme che si aggiungono alle precedenti in una spirale senza fine, aggravata dalla breve durata degli esecutivi. Occorre fare tutto il contrario. Lord Eldon, cancelliere britannico, in una replica alla Camera dei Lord sui temi sollevati da quello che parecchi anni dopo sarebbe divenuto il Great Reform Act, dichiarò nel 1820: “Riforme, riforme, ma non vi sembra che le cose vadano già male abbastanza?”. Le continue riforme creano incertezza e instabilità e mortificano lo spirito imprenditoriale.

Il compito dello Stato

La stagnazione dell’economia che si trascina da anni, determinando il progressivo indebolimento del tessuto industriale italiano, e le pesanti conseguenze della pandemia di Covid-19, che sta portando l’Europa e il resto del mondo in una recessione dagli effetti ancora incalcolabili, inducono molti politici e una parte dell’opinione pubblica a invocare il ritorno massiccio dello Stato nell’economia. Ma la pretesa di dare in tal modo una risposta semplice e immediata a problemi che hanno radici strutturali profonde rischia di aggravare la situazione, impedendo di rimuovere i pesanti vincoli strutturali che da troppo tempo fanno da freno al nostro sistema economico.

La presenza dello Stato nell’economia pone problemi complessi e richiede strutture che in Italia sono state smantellate negli ultimi decenni. Quando Beneduce, negli anni trenta, fu incaricato di definire le modalità di intervento dello Stato, per contrastare gli effetti della Grande depressione, suggerì la creazione di un’istituzione specifica che consentisse di separare nettamente e per un periodo limitato gli interventi di natura privatistica
da quelli tipici della pubblica amministrazione. L’efficacia dello strumento, l’ente pubblico economico, fece sì che altri paesi come la Francia decidessero di adottarlo. L’Iri, creato per salvare dal dissesto le imprese e le banche creditrici, aveva lo scopo limitato di risanare finanziariamente le aziende al collasso per poi reimmetterle sul mercato. L’attribuzione della titolarità al Tesoro, attraverso il demanio pubblico, garantiva che le aziende fossero gestite a tutela del patrimonio dello Stato e la natura autoritaria del regime assicurava l’unicità della catena di comando e la designazione al vertice di tecnici puri.

Dopo la guerra l’Iri divenne invece un’istituzione permanente e ad esso furono affiancati nuovi enti pubblici economici con ben altre finalità rispetto a quella di risanare le aziende per poi dismetterle. E con il progressivo declino del primato politico della Democrazia cristiana si perdette anche ciò che restava dell’unicità di comando e cominciò la spartizione partitocratica delle cariche nelle aziende. Da quel momento la nomina del management pubblico è avvenuta non più in funzione di un disegno industriale, ma con l’obiettivo da parte di ciascun partito di allargare la propria sfera d’influenza. Ancora più della corruzione e della mala gestione, è stata l’invadenza dei partiti a decretare la fine del sistema delle partecipazioni statali, ed è proprio questo, soprattutto nel vuoto di governance e di regole, a rendere oggi rischioso l’allargamento della sfera pubblica. Lo Stato è tuttora molto attivo in settori strategici attraverso gruppi controllati o totalmente posseduti come Enel, Eni, Fincantieri, Leonardo (già Finmeccanica), Poste, Rai, Rfi, Saipem, Snam, Terna, Trenitalia.

Per non parlare della pletora di aziende partecipate dagli enti locali e territoriali che, ad eccezione di alcune grande multiutility quotate in Borsa, rappresentano un’area di inefficienza e di clientelismo.

In un’economia aperta servono imprese innovative che abbiano una scala adeguata per competere, organizzate in modo efficiente. Anche se in alcuni paesi la ricerca di base e lo sviluppo tecnologico in attività fortemente presidiate dal pubblico come la difesa e l’aerospazio hanno avuto un ruolo propulsore per l’iniziativa privata, lo Stato per sua natura non è in grado di tradurre l’innovazione in iniziative imprenditoriali alla stessa stregua dei privati. Lo Stato non ha la possibilità di governare il processo di distruzione creativa, che è l’essenza del capitalismo.

I processi che regolano il funzionamento dello Stato non contemplano l’assunzione di rischi. L’innovazione richiede invece che l’imprenditore possa avventurarsi su terreni scivolosi, con conseguenze anche gravi. Sono il sistema di regole e le infrastrutture pubbliche a creare le condizioni per l’innovazione. Lo Stato svolge una funzione essenziale nel promuovere gli investimenti, non solo nelle infrastrutture e nei servizi, ma anche nella ricerca, nella scuola e nell’università. In tutto questo l’Italia è carente. La pubblica amministrazione è stata nel tempo impoverita nelle professionalità, gravata di regole che ne ostacolano il funzionamento, umiliata nei suoi compiti. Per creare l’infrastruttura e le regole che consentano all’iniziativa privata di esprimersi al meglio occorre un programma di snellimento dell’amministrazione centrale e locale e di semplificazione delle procedure.

La crescita tumultuosa di internet e del web è l’esempio di come una serie di innovazioni e di processi resi disponibili spesso gratuitamente da enti pubblici, ma promossi e sviluppati da dinamici imprenditori privati, hanno prodotto le condizioni per una trasformazione radicale dell’economia e del nostro stesso modo di vivere su scala mondiale. L’idea di aprire internet agli usi commerciali, liberando il potenziale creativo del sistema economico americano per favorire la crescita di nuove imprese, è stata una decisione politica dell’amministrazione Clinton. Per permettere la diffusione della Grande Rete, gli Usa hanno stabilito, con una forma di eccezionalismo normativo, di esonerare internet dalle regole applicate agli altri settori.

Il quadro regolatorio, per coloro che si accingevano a operare nel web, è stato definito con il Telecommunication Act del 1996, che ha liberalizzato i servizi broadband. Allo stesso modo gli operatori internet sono stati protetti dal rischio di azioni legali per diffamazione e calunnia. La sezione 230 del Communication Decency Act rende indenni i titolari di siti web da azioni giudiziarie per i contenuti generati dagli utenti. Per evitare ai provider le conseguenze della violazione del copyright, l’8 ottobre 1998 è stato approvato dal Senato Usa il Digital Millennium Copyright Act, che limita la responsabilità dei gestori di piattaforme in materia di diritto d’autore.

E un’altra legge, l’Internet Tax Freedom Act, esenta gli stessi provider dal pagamento delle imposte locali. È un esempio di come lo Stato attraverso un sistema di regole possa creare incentivi o disincentivi allo sviluppo, favorendo l’innovazione e l’imprenditorialità, e di come possa abbattere i limiti alla libertà d’iniziativa privata in un campo inesplorato.

Le regole in uno Stato moderno sono numerose e complesse e comportano oneri rilevanti per rispettarle. Uno Stato che voglia favorire l’innovazione dovrà procedere a selezionate operazioni di potatura. Solo incamminandosi su questa strada potrà assicurare alle giovani imprese di crescere e di dare frutti.

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