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L’industria fa la 4a rivoluzione ma solo dove c’è: ecco perché

Pubblichiamo, per gentile concessione dell’editore Guida, le conclusioni del nuovo libro di Ricccardo Gallo “L’industria fa la 4a rivoluzione ma solo dove c’è e semprechè sopravviva” in cui si fa un bilancio della politica industriale degli ultimi tre governi e dei loro effetti sul sistema industriale italiano: il recupero c’è ma resta il problema della competitività

L’industria fa la 4a rivoluzione ma solo dove c’è: ecco perché

Nella XVII legislatura 2013-2018, i tre governi che si sono succeduti (Letta, Renzi, Gentiloni) hanno messo in atto una politica industriale mirata all’atto pratico ai seguenti cinque obiettivi:

1) gestione (ereditata) delle crisi aziendali, mediante i cosiddetti tavoli ministeriali e il saltuario ricorso alla definizione arbitraria e distorsiva di “settore strategico”;

2) nascita di Startup Innovative;

3) rinnovo del parco macchine di produzione, con la Nuova Sabatini;

4) rilancio degli investimenti industriali, grazie a un Superammortamento al 140 per cento;

5) Industria 4.0, piano nazionale per una maggior flessibilità di produzione e una velocità di industrializzazione di tecnologie innovative che aumentino produttività, qualità e competitività delle imprese, grazie alla Banda Ultralarga e a un Iperammortamento al 250 per cento.

Gli effetti di questa politica sono stati qui misurati incrociando ed elaborando dati aggiornati ad agosto 2017 delle fonti più autorevoli (Banca d’Italia, Istat, Mediobanca, Ministero dello Sviluppo economico, Wef, Imd). Gli effetti sono risultati positivi, ma lenti, di ampiezza limitata e tutto sommato non ancora sufficienti rispetto alle esigenze, non idonei a superare i dualismi territoriali né a innescare un ricambio generazionale dell’imprenditoria italiana. Gli effetti però preannunciano un ulteriore impatto positivo in un arco temporale non lungo. Si tratta di effetti non temporanei, ma di certo solo prodromici di futuri recuperi realmente strutturali. La definizione di ripresa «congiunturale e non strutturale», usata dal governatore della banca d’italia il 25 agosto 2017, va letta in questo senso.

In estrema sintesi, da questo lavoro emerge che nei cinque anni di legislatura le imprese hanno mostrato un apprezzabile recupero del loro contenuto industriale, in termini di valore aggiunto (salito da 16,4 per cento del fatturato a fine 2012 a 19,7 per cento nel 2016) e anche della produttività del lavoro.

Questo recupero risulta essere merito quasi esclusivo di un miglior utilizzo della capacità produttiva installata (salito dal 71 per cento medio nel 2012 all’80 per cento nel 2016), grazie a un’espansione della domanda aggregata.

Gli investimenti materiali, i soli che possano generare nuove reali opportunità di lavoro manifatturiero (non potendosi dire altrettanto degli incentivi ad assumere senza un ampliamento delle attività produttive), sono stati segnalati in ripartenza a partire da metà 2016 e, considerati i tempi tecnici di cantiere e di lancio dei rispettivi nuovi prodotti, dispiegheranno i loro effetti benefici sull’economia solo nei primi mesi della prossima legislatura. Perciò, non sarà semplice per i partiti di maggioranza vantarsene in campagna elettorale alle prossime elezioni politiche.

I due dati, cioè l’elevato utilizzo degli impianti e gli incipienti investimenti di ampliamento o ristrutturazione, sono coerenti tra loro perché un’impresa pensa a investire solo quando le fabbriche sono pressoché sature.

È stato dimostrato dalla banca d’italia che lo strumento più efficace ai fini del rilancio in atto degli investimenti è il cosiddetto Superammortamento al 140 per cento, che il governo ha varato prendendo spunto da una proposta da me formulata a maggio 2015, identica nel principio ma illimitata nell’ampiezza. Scrissi: «La prossima legislatura partirebbe con il turbo». Pochi ci credettero.

Intanto, i mezzi di produzione sono ulteriormente invecchiati: l’anzianità media è salita da 17,1 anni nel 2012 a 19,7 nel 2016, con un aumento di due anni e mezzo nei quattro anni trascorsi.

Le imprese hanno mantenuto l’efficienza gestionale che già avevano. Hanno ulteriormente migliorato il loro stato di salute patrimoniale e finanziaria: il rapporto tra debiti finanziari e capitale di rischio è sceso da 0,86 nel 2012 a 0,69 nel 2016, perché con la cassa non reinvestita hanno rimborsato debiti finanziari.

Ciò conferma che la causa della loro riluttanza a investire non va cercata in una carenza di risorse, cioè in un’insufficienza del credito. Simmetricamente, un aumento smisurato della massa del credito bancario sarebbe anelastico e inutile. L’occupazione nella media e grande industria prevedo che a fine legislatura torni sui medesimi livelli esistenti all’inizio, nella primavera del 2013.

Quanto agli altri strumenti varati, le piccole imprese manifatturiere impegnate ad ammodernare i loro macchinari grazie alla Nuova Sabatini risultano essere in gran numero, ma l’ampiezza dell’ammodernamento è modesta e l’area interessata è solo quella dove c’è già maggior densità di pmi (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Toscana). Nelle regioni meridionali la Nuova Sabatini ha portato scarsi benefìci.

Discorso analogo per le Startup Innovative. Il ministro dello Sviluppo economico, Carlo Calenda, ha sostenuto che ad esse va «riconosciuto il merito di proporre un nuovo paradigma imprenditoriale caratterizzato dall’ambizione a crescere rapidamente, dalla vocazione internazionale, dall’impegno all’innovazione permanente e dalla propensione alla contaminazione intersettoriale e all’open innovation. Tali valori, se diventeranno sistemici, saranno in grado di rinnovare l’intero tessuto imprenditoriale, compreso quello più tradizionale».

Anche i primi effetti di questo strumento sono positivi e promettenti, circoscritti più o meno alle stesse regioni della Nuova Sabatini ma con il sorprendente ingresso della Campania. Inoltre, di questo passo (6.457 nuove Startup in quattro anni, da giugno 2013 a giugno 2017, a un ritmo uniforme di 1.614 all’anno), ci vorrebbero più di mille anni per sostituire le attuali un milione e seicentomila società italiane di capitale, tempi biblici. Dunque, non bastano le Startup Innovative, occorre che tutti i progetti in corso al ministero dello Sviluppo economico procedano con successo. Forse per questa ragione il ministro ha detto «se diventeranno sistemici».

Dunque, il Mezzogiorno resta con poca Sabatini e, salvo l’eccezione piacevole della Campania, con poche Startup Innovative. D’altronde, dove c’è poca industria piccola, media e innovativa, ci sono scarsi presupposti per una crescita dell’economia reale. La questione meridionale resta l’aspetto più trascurato, spinoso e irrisolto anche nel campo della politica industriale.

Nel pamphlet Torniamo a industriarci. A novant’anni dalla grande crisi, edito nel 2016 in questa stessa collana, avevo sostenuto che la deindustrializzazione fosse iniziata alla fine del 1998 quando l’incertezza nel sistema aveva raggiunto livelli massimi, gli imprenditori avevano preferito rinviare il varo di quasi tutti gli investimenti già programmati, e da allora senza freni il paese aveva anche perduto produttività, quindi competitività.

Le cause dell’incertezza erano maturate tuttavia negli anni precedenti, tra il 1990 e il 1998 quando, sotto la pressione internazionale, ancor prima dell’ingresso della lira nell’euro e in assenza di politiche correttive, erano stati smantellati uno dopo l’altro i principali strumenti di intervento pubblico nell’economia che il regime fascista sessant’anni prima aveva allestito per arroccare, proteggere e isolare l’Italia dagli effetti della crisi di borsa e finanziaria mondiale del 1929. Intervento pubblico di cui gli imprenditori italiani, assuefattisi, alla fine degli anni Novanta scoprirono di non saper fare a meno.

Uno degli aspetti oggi più promettenti è che, nell’arco di questa legislatura, da fine 2012 a giugno 2017, l’indice di incertezza ha presentato una progressiva caduta, scendendo a quei minimi storici che negli ultimi decenni erano stati conseguiti solo un paio di volte. Ciò fa ben sperare per il prossimo futuro, perché il rilancio in atto degli investimenti produttivi grazie al Superammortamento potrebbe, anzi dovrebbe, essere rafforzato, senza più rinvii. Sempre che questo strumento venga maggiorato o, quanto meno, replicato e non indebolito per il 2018.

In questo quadro, il piano Industria 4.0 genera grandi aspettative, sia perché esso è parte di un processo globale (economico, industriale, tecnologico, sociale), sia perché arriva in Italia in sincronia con la bassa incertezza, l’utilizzo pieno degli impianti, un ritorno della propensione a investire. Quel processo globale fu definito Industry 4.0 e, fin dal 2011, quarta rivoluzione industriale. In Italia ebbe come archetipo una matrice di trasferimento tecnologico costruita in modo sperimentale quattro o cinque anni prima dall’ipi, agenzia poi soppressa del ministero dello Sviluppo economico. Nelle righe della matrice c’erano 18 settori industriali e nelle colonne 10 filiere o aree tecnologiche (dalle nano- e bio-tecnologie alle tecnologie per informatica, tlc, a quelle gestionali).

Il passaggio evolutivo dalla matrice alla quarta rivoluzione è stata impressionante: le colonne da dieci sono diventate un’infinità; da parallele e indipendenti sono diventate interagenti e cross-fertilizzanti; in passato, per inseminare i settori, c’era bisogno del trasferimento tecnologico, dei relativi operatori (una sorta di api che portano il polline nei fiori) e di tempi lunghi. Ora, tutto è spontaneo, istantaneo, quasi incontrollabile. Inoltre, dall’ambito strettamente manifatturiero, la quarta rivoluzione industriale dilaga nella gestione, nella rete di fornitori e clienti, nel mondo del lavoro, nella società, ma ha un carattere jobless. Non è più solo tecnologia, è conoscenza a tutto tondo.

I centri di ricerca più avanzata segnalano che i nodi critici sono la formazione e le infrastrutture istituzionali. Quanto alla prima, le ricerche aggiornate ad agosto 2017 segnalano che l’Italia è indietro sia come qualità e quantità di domanda di professioni del futuro, sia come loro retribuzione, sia come organizzazione scolastica, ma dicono pure che la fiducia in questo campo nei confronti dell’Italia chissà perché è in crescita.

Alcuni recenti dati positivi sull’occupazione industriale in Italia non smentiscono che la quarta rivoluzione industriale sia jobless, semmai dimostrano che questa rivoluzione non è ancora arrivata nel nostro Paese. Quanto alle infrastrutture istituzionali, la questione tocca l’assenza di un quadro regolatorio, la bassa consapevolezza della classe politica e di quella dirigente del Paese. Su tutti questi nodi, le aspettative verso il progetto Industria 4.0 del ministero dello Sviluppo economico sono enormi.

I primi risultati concreti vanno analizzati con molta attenzione. Da una prima lettura, ritengo si possa sostenere: che il ministero dello Sviluppo economico sia ben consapevole del carattere sistemico e complessivo del processo di trasformazione tecnologica in corso nell’industria; che il ministero la parte di sua stretta competenza amministrativa la stia facendo bene; che merito del forte incremento registrato negli acquisti di macchinari innovativi nei primi cinque mesi del 2017 debba andare all’Iperammortamento più che all’impatto politico del Piano governativo; che infatti la ricaduta sulla formazione e sull’organizzazione del lavoro sia assolutamente carente; che perciò l’attuazione del Piano Industria 4.0 è disarticolata, segmentata, non coordinata, in definitiva inefficace.

Queste considerazioni mettono in evidenza che altre due importanti questioni sono tuttora irrisolte.

1) la competitività dell’Italia nel 2017 ha presentato una flessione, un rimbalzo forse da delusione, nelle graduatorie mondiali è tornata sui medesimi livelli di inizio legislatura. In particolare, nelle infrastrutture di base.

2) Tra queste ci sono le reti in monopolio naturale, sottoposte alla regolazione delle cosiddette authority. Le società che gestiscono queste reti (trasmissione dell’elettricità ad altissima tensione, trasporto del gas, servizi autostradali) godono di tariffe e pedaggi generosi e possono vantare margini economici ciclopici, pari a tre o quattro volte quelli delle imprese industriali che sono erosi dal costo di quelle stesse reti.

Per ciascuna delle due questioni, da tempo ho avanzato pubblicamente una proposta, per ora inascoltata. Sulle reti in monopolio naturale, suggerisco che il nuovo governo riferisca in Parlamento e questo faccia subito una riflessione approfondita e indipendente sui dati di fatto, senza caccia alle streghe e senza processi.

Sulla competitività, come ho notato nel capitolo 2, considero molto importante che il presidente di Confindustria abbia indicato questo tema come obiettivo di fondo da perseguire. Io parto dalla considerazione che nell’organigramma del governo esistono strutture per così dire verticali deputate alcune a governare il capitale nelle sue varie forme (l’Economia governa il capitale finanziario, le Infrastrutture quello immobilizzato materiale, i Beni culturali quello immateriale), altre a governare il lavoro nelle sue varie fasi (Lavoro e politiche sociali, Istruzione e università).

Manca invece una struttura adibita a elaborare un progetto di recupero della competitività del sistema produttivo, di verificarne e sollecitarne l’attuazione, una struttura che operi in modo orizzontale e trasversale rispetto ai ministeri maggiori.

La mia proposta è che il prossimo Governo elabori e ingegnerizzi un progetto di legislatura sulla competitività dell’Italia, in cui campeggi il Mezzogiorno, lo approvi e ne affidi la verifica e la sollecitazione al ministero dello Sviluppo economico. Poiché la competitività è interministeriale, il nuovo ministro dovrà essere attento a non invadere campi altrui, dovrà limitarsi a misurare tempi e ampiezza del recupero, cogliere eventuali scostamenti e ritardi, riferirne a Palazzo Chigi, proporre misure correttive. Insomma, dovrà svolgere la funzione di sollecitatore operoso e silenzioso della competitività, interpretando così un copione riveduto della politica industriale, più moderno e rispettoso del mercato.

Il ministero dello Sviluppo economico è dotato di competenze già idonee al compito o facilmente integrabili.

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