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Letta e i lavoratori azionisti: sì alla sfida

La proposta lanciata dal segretario del Pd è una sfida da raccogliere. È legata ai cambiamenti nel lavoro che la pandemia ha accelerato. E non ha a che vedere con le norme sulla rappresentanza, piaccia o no alla Cgil

Letta e i lavoratori azionisti: sì alla sfida

La proposta del neosegretario del PD Enrico Letta, in favore della partecipazione dei lavoratori ai risultati d’impresa durante la sua relazione, riapre un’antica frontiera del lavoro e delle relazioni industriali, molte volte enunciata, ma mai veramente affrontata nel nostro Paese. 

Non credo, rifacendomi al dibattito aperto da Ernesto Auci sulle pagine di FirstOnline, si tratti di pensare alla proposta del neo-eletto Segretario del Pd, dentro un tradizionale orizzonte politico di sinistra o centrista che esso sia. 

Ciò che conta è essere – e non è per nulla scontato – almeno consapevoli della modernità di questa prospettiva. La sfida della partecipazione dei lavoratori torna alla ribalta perché è sempre più determinata dai contenuti del cambiamento che il lavoro sta vivendo e che la pandemia ha accelerato. 

Non è quindi un tema del passato che ritorna, ma un pezzo di futuro che ci interroga e che il nostro Paese deve affrontare, come è già avvenuto in Europa. 

Deve far ragionare in prospettiva il fatto che, al momento, anche se solo formalmente, la partecipazione di lavoratori nel Cda, entri come tema nell’ex-Fiat, con la nascita, in alleanza con il gruppo PSA, del Gruppo globale di automotive Stellantis.

Detto ciò, non siamo all’anno zero, le relazioni industriali sempre più personalizzate e decentrate sono state capaci di affrontare due aspetti importanti della partecipazione: quella organizzativa che  sta prendendo sempre più piede in modo strutturato (lo stesso recente rinnovo del contratto dei metalmeccanici ne prevede un ampio e dettagliato capitolo) e gli accordi aziendali. Di quest’ultimi, in Italia se ne contano 16mila e trattano materie come premi di risultato, nei quali parti del salario annuo dei lavoratori sono correlate al raggiungimento di obiettivi, anche di carattere economico e finanziario.

E’  tempo quindi, di dare alla partecipazione strategica ed economica una definitiva cittadinanza. Il tessuto culturale dell’economia reale del nostro Paese, incentrato su un capitalismo familiare, ha sempre costituito un terreno ostativo a questa prospettiva, non basta accontentarsi dei recenti casi come quello della Campari o di Essilor per dire che ci siamo.

Dobbiamo strutturare un percorso di partecipazione concretamente realizzabile partendo ad esempio dall’introduzione della presenza di rappresentanti dei lavoratori nei comitati strategici decisionali, a partire dalle principali imprese a partecipazione pubblica (Enel, Eni, Ferrovie, Leonardo, ecc.). Sviluppare poi, nel contempo, una legge di sostegno che: da un lato renda vantaggiosa l’erogazione di azioni ai dipendenti e dall’altro preveda in ambiti e tematiche come investimenti, delocalizzazioni, riorganizzazioni,  la consultazione e la condivisione preventiva con i lavoratori, e che questa sia organizzata nelle imprese, incentivando la contrattazione a irrobustire questo spazio. E’ troppo? Non credo, il futuro del lavoro, quello di qualità, si gioca sempre più dentro una sostenibilità sociale e ambientale che vede nella partecipazione, la sua leva di tenuta sociale ed economica. 

Occorre distinguere, come già avviene nelle realtà lavorative più avanzate, che sono i lavoratori e i loro rappresentanti a partecipare, il sindacato ha invece il compito di contrattare. Un tema, questo, che andrebbe chiarito anche dentro il sindacato stesso.

In questo senso, una normativa di sostegno alla partecipazione strategica nulla ha a che vedere con una legge sulla rappresentanza. La Cgil si metta l’anima in pace.

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